Craig icona beat gay negli Usa anni 50 Così Guadagnino incontra Burroughs

In Cinema

In “Queer”, ispirato al libro del famoso autore della beat generation, lo scrittore William Lee, interpretato con introspettiva disperazione dall’ultimo 007, fugge in direzione di Citta del Messico. Trovando compagnia in un bellissimo studente, recalcitrante ma non troppo, con cui consuma una passione forte ma complessa. Ma quello di cui va in cerca è la radice di una pianta che permette la telepatia. Sogno magico inseguito anche da Fellini. Una storia d’amore e sentimenti perduti

Lo scrittore americano della beat generation William Burroughs ha ispirato il nuovo film di Luca Guadagnino Queer, libro scritto nei primi anni 50 e apparso in prima edizione Adelphi col titolo Checca. Queer è infatti, al contrario dell’elegante “gay”, il termine dispregiativo pop di omosessuale, quello che si usava certo nello slang dell’America da cui fugge, all’inizio della storia, lo scrittore William Lee, per andare a Città del Messico, come il Malcolm Lowry di Sotto il vulcano, ma in una scenografia ricostruita a Cinecittà come in un western spaghetti. Lee è impersonato con la doverosa e introspettiva disperazione da Daniel Craig, sì, l’ultimo James Bond, che aveva già peccato in un film su Francis Bacon.

Si dondola amaramente nella pigrizia fortemente alcolica, drogata e passa da un bar malfamato all’altro in cerca di avventure. Trova la preda perfetta in un bellissimo studente, recalcitrante ma non troppo, forse una spia (Guadagnino dice sì, sicuramente), con cui consuma sesso ottimo e abbondante. Ma non basta. C’è sempre la felicità esistenziale che riappare dopo il desiderio e la sigaretta, così Lee decide di partire col ragazzo per la giungla amazzonica dove cercano, non l’elisir di lunga vita come nell’800esca utopia di Faust, ma la radice di una pianta che permette la telepatia, un sogno magico inseguito non a caso anche da Fellini.

L’ultima parte non poteva che essere così, è psichedelica, un’ossessione di forme e colori come il finale di 2001 di Kubrick, ma finalmente con i due corpi che si fondono sotto pelle, come una unione sempre sperata e ma raggiunta. Queer racconta il desiderio di un paradiso perduto, come lo Shangri-La di Frank Capra aggiornato al tasso crescente d’infelicità di oggi. Ci sono scene di sesso, ma ormai fuori dallo scandalo, perché il vero scandalo è la condizione esistenziale del protagonista, benissimo resa, con glaciale partecipazione, da Craig. Dice Craig, dribblando le ovvietà sullo 007 gay, che il film è “una storia d’amore, passione, sentimenti perduti”. Guadagnino, inseguendo i suoi fantasmi preferiti di Bertolucci e Powell & Pressburger, si chiede se sia possibile schiacciare quello sgomento post sesso, quella complessa insoddisfazione completa di senso di colpa: forse la telepatia, appunto, può unire davvero i due corpi, sono gli effetti speciali del cinema che ci salveranno.

Ma la condanna alla solitudine esiste, il guru William S. Burroughs, l’ha biograficamente espressa ed ufficialmente formalizzata nel breve e lancinante romanzo sulla sordida suburra cui si ispira Guadagnino, all’epoca censurato, come oggi alcuni paesi (la Turchia) censurano il film, che si avvale della splendida fotografia del thailandese Sayomphu Mukdiphrom, le cui immagini ci rimandano un tesoro emotivo forte, nascosto in ogni gesto ed espressione di protagonisti e comprimari assiepati.

Queer, di Luca Guadagnino, con Daniel Craig, Drew Starkey, Lesley Manville, Jason Schwartzman, Henry Zaga, Drew Droeger, Ariel Schulman 

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