Courage, con riserva

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Foto © Federico Pitto

La regia (di Elena Gigliotti) è capace e crea uno spettacolo scorrevole, la protagonista (Simonetta Guarino) è interessante e fa un ottimo lavoro, ma la Courage in scena a Genova purtroppo non fa bene i conti con il testo di Brecht…

Quando sul palco del Teatro Gustavo Modena di Genova compare il celebre carretto lo si vede sormontato dall’insegna Courage sotto a un’enorme M gialla rubata a una famosa multinazionale di hamburger. Tra la merce esposta lo schermo di un computer o di una TV su cui compaiono le sequenze di cronache da TG o le didascalie storiche del testo, quelle che nel testo introducono le singole scene, trasformate ora in documentari alla Piero Angela.

Non siamo più tra Polonia, Svezia e Germania nella metà del ‘600, durante la Guerra dei Trent’Anni, ma in una situazione atemporale sferzata dai recenti venti bellici dell’Est Europa. I conflitti contemporanei soffrono, oggi più di un tempo, della globalizzazione con gli abbigliamenti disorganici e le lingue che si mescolano, gli accenti che si sovrappongono, con ciascun attore che caratterizza il proprio personaggio con una differente calata straniera o regionale.

Tutto è chiaro fin dalle prime sequenze della regia della 36enne Elena Gigliotti di proporre il capolavoro di Brecht in una chiave (giovanile?) personalissima 2.0, lontana dai fondamentali allestimenti genovesi, dalla pietra miliare di Squarzina e Lina Volonghi come dal revival di Sciaccaluga con Mariangela Melato. Si vede subito che la Gigliotti li ha visti e studiati, come ha studiato gli storici filmati con Helene Weigel, di cui ripropone il gesto finale di ricontare le monete prima di darle ai contadini che devono seppellire il cadavere dell’ultima figlia.

Si vede anche che deve aver letto gli Scritti teatrali di Brecht, magari nell’edizione tascabile PBE e non nell’integrale in tre volumi, tant’è che per un po’ si dimostra rispettosa dei canoni col siparietto a mezzo boccascena (questa volta cucito con vestitini, gonne, cappotti, maglioni, reliquie delle vittime di tutte le guerre), con i song che vengono a intervallare le scene in prosa, con il palcoscenico totalmente vuoto e i tecnici che muovono a vista i pochissimi elementi sul palco come la piattaforma rotante centrale. Ben presto però si mostra insofferente a dettami che evidentemente ritiene obsoleti o che le riescono opprimenti, lacci difficili da seguire, e dunque trascura sia la recitazione straniata che le forme del teatro epico.

Si occupa soprattutto di caratterizzare la recitazione degli attori, tutti genovesi o di formazione genovese, curando gli aspetti più formali e narrativi del testo che quelli teatralmente più sostanziali. Courage usa un accento mitteleuropeo, moldavo o ukraino, il figlio Eilif si esprime in balcanico (Aleksandros Memetaj, ottima presenza), in italiano parla suo fratello Schweirzerkas (Sebastiano Bronzato, encomiabile nella commovente ingenuità del suo personaggio), mentre per i personaggi minori si passa “realisticamente” dall’americano, al russo, allo spagnolo, perfino all’arabo e all’erzegovino, e si riconoscono anche inflessioni lombarde, napoletane, e venete.

Non tutti gli interpreti riescono omogenei nell’impresa del plurilinguismo, ma la direzione registica appare inequivocabile e trainante. La critica più rilevante da muovere allo spettacolo rimane la evidente rinuncia alla matrice dell’umanesimo marxista fondativo del testo brechtiano, dove Madre Coraggio viene ritratta come emblema del comportamento dell’individuo piccolo borghese di fronte ai modi di condurre l’esistenza. Il capitale come massimo valore, più importante dei sentimenti, più dell’etica o della religione. La vita dei figli può perfino esser al centro di contrattazioni economiche, ma la mentalità non ne è intaccata, e alla fine Courage non impara nulla dai propri lutti e disgrazie e continua a vedere nel guadagno economico il solo scopo della sua vita.

La guerra è metafora, gioca il doppio ruolo di salvezza e distruzione. Grazie alla guerra Madre Coraggio campa e si salva, ma alla guerra deve anche sacrificare i tre figli. E se si troverà a trascinare da sola il proprio carretto, di nuovo ha la guerra come unica meta e prospettiva. Tant’è che la battuta più importante del dramma (dunque la più difficile da interpretare, come affermava Strehler) suona “Sia maledetta la guerra!” e arriva a metà dello spettacolo, quando il secondogenito Schweirzerkas è già morto, il più grande Eilif disperso e la muta Kattrin destinata chiaramente a uno zitellaggio senza un futuro e senza una dote su cui contare.

Sul palco del Gustavo Modena la battuta viene recitata tra singhiozzi, forse di pentimento e comprensione della realtà, subito negati da una clamorosa risata canzonatoria. Lo spettatore è evidentemente portato più a empatizzare con gli stati d’animo della protagonista, piuttosto che a comprendere le motivazioni che li determinano e in ciò viene meno gran parte del valore del testo brechtiano che pure comprende e mette in luce entrambi gli aspetti. Un’incompletezza decisamente grave l’aver negato nella messa in scena il punto di vista interno antimilitarista e l’aver dato per oggettivamente inevitabili e scontati l’illegalità nei commerci, la prostituzione, le torture, gli egoismi e il ribaltamento dei valori.

Forse non si può chiedere questo a una regista così giovane, anagraficamente cresciuta e formatasi nell’epoca tra la Milano da bere con la cultura condizionata dalle tv commerciali e dalle televendite e i trionfi internazionali dell’Expo, mentre (e un’altra volta si deve dire “forse”) la messa in scena di una versione alla Squarzina/Volonghi complessa e problematica, brechtiana in senso stretto, non è più antropologicamente possibile. Di contro non si può non riconoscere alla Gigliotti la capacità di creare uno spettacolo scorrevole e ricco di belle intuizioni visive, coinvolgente e giustificabile anche nello sfondamento della quarta parete, con un magnifico disegno-luci firmato da Davide Riccardi e un ottimo aggiornamento dei song in chiave elettronica realizzato da Matteo Domenichelli, accattivante anche per la generazione Z (a tal riguardo bisogna riconoscere come uno dei momenti più alti della serata La canzone di Salomone interpretata nel pre-finale da Aleksandros Memetaj tra lo strazio e il grottesco).

Si è lasciata come considerazione finale la sorpresa per la performance della protagonista, l’attrice genovese Simonetta Guarino, pressoché sconosciuta fuori dal circuito ligure (cresciuta e attiva soprattutto all’Archivolto) anche se forte di esperienze comiche sulla pedana milanese dello Zelig. Fisicamente ha analogie anche mimiche con Ave Ninchi con cui condivide anche la duttilità fonetica nell’esprimersi in differenti cadenze linguistiche riproducendone e mantenendone la credibilità. Dotata di uno straniamento naturale, che certo le deriva dalle sue frequentazioni del comico, è mirabilmente attendibile nel momento in cui passa dal recitare come personaggio a quando si esprime come sé stessa in quanto attrice sul palco. Per lei l’esperienza di Madre Coraggio può davvero essere uno straordinario trampolino di lancio in scala nazionale non solo in campo teatrale. Un apprezzamento che le valga come augurio.

Foto © Federico Pitto

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