“Cocaina”, un viaggio all’inferno, ma il bravo McConaughey non evita il flop

In Cinema

Alla seconda regia dopo l’ottimo “’71”, sulla guerra nordirlandese, il francese Yann Demange porta sullo schermo la tragica (e vera) vicenda di un giovanissimo informatore dell’Fbi, scaricato dallo stato e condannato, a soli 18 anni, all’ergastolo. Nella guerra alla droga di eroi non ce n’è da nessuna parte, banditi e poliziotti fanno tutti parecchio schifo: anche troppo per affascinare gli spettatori

Brutto, sporco e cattivo, come il “cesso” (così viene definita nelle prime battute del film la Detroit dei primi anni ottanta), Cocaine – La vera storia di White Boy Rick del francese Yann Demange, al secondo film dopo il buon esordio con il thriller nordirlandese ’71, è un film sgradevole e quasi fastidioso, dalla prima all’ultima inquadratura. Nelle quasi due ore di corsa affannosa al “si salvi chi può”, in cui nessuno può, il degrado è ovunque: nello sguardo svogliato dell’impresentabile adolescente Richie Merritt, al debutto su pellicola, nel capello unto del padre trafficante d’armi di basso livello Matthew McConaughey, nell’occhio spiritato e nelle urla stridule della sorella tossicodipendente Bel Powley. Tanto che, nonostante l’ottima prova di un cast più che convinto e nella parte (Mc Conaughey santo subito), a fine proiezione permane la sensazione che qualcosa nell’ideazione del prodotto finito sia andato terribilmente storto.

Per quanto “tratto da una storia vera” di criminalità, spaccio e redenzione (oppure no), di quelle che ora piacciono tanto a Hollywood e dintorni, Cocaine inizia troppo presto a trascinarsi stancamente verso l’ovvia conclusione, senza tuttavia mai far capire davvero dove voglia andare a parare. Molto meno retorico e buonista di Il corriere – The Mule di Clint Eastwood, il film di Demange pare comunque a tratti voler cavalcare la stessa onda del dramma dai risvolti comici, o della commedia dai risvolti seri, riuscendo nell’impresa di non centrare né l’uno né l’altro bersaglio in maniera convincente: le battute, per quanto anche divertenti, suonano sempre fuori luogo nel contesto di miseria e disperazione in cui si muovono i personaggi. E i momenti drammatici, d’altro canto, non colpiscono semplicemente perché è impossibile provare una qualunque forma di compassione per ciascuno dei protagonisti. Troppo brutti sporchi e cattivi, appunto, totalmente privi di carisma (provaci ancora, Merritt) o talmente patetici, nel loro diabolico perseverare, da non sembrare alla fine meritevoli di alcuna forma di salvezza.

Così, qualora l’intento del film fosse almeno quello di denunciare l’incredibile vicenda di Richard Wershe Jr., informatore dell’FBI a quattordici anni, tradito da chi lo aveva ingaggiato e condannato all’ergastolo per spaccio solo tre anni più tardi, e la sua condanna (durissima, esemplare, anche perché è parte integrante della campagna governativa dell’epoca per la lotta alla droga), finisce invece col far sembrare tutto ciò che accade normale, per non dire legittimo, verdetto compreso. Neanche dall’altra parte della barricata si fa certo una gran figura, tutt’altro: dal sindaco corrotto agli agenti federali svogliati e arroganti Jennifer Jason Leigh e Rory Cochrane, nemmeno tra i “buoni” si riesce a trovare un solo personaggio che sia davvero positivo, o di cui si condividano metodi o motivazioni. La battuta più edificante del film? “Le armi sono un diritto, la droga no”.

Non ci mancava certo la morale sulle tossicodipendenze, per carità. Ma, con simili premesse, è inevitabile che l’intero racconto scorra via col pathos di chi, facendo zapping distrattamente, incappa nell’ennesima vicenda di cronaca dal finale scontato, o in una delle mille serie tv finto-provocatorie, con il gran nome nel cast e poco altro, destinate a sparire nell’arco di una o due stagioni. La regia di Demange, nonostante tra i produttori figuri nientemeno che Darren Aronofsky, ha buone intuizioni nella costruzione di atmosfere e personaggi secondari, ma si arrende troppo presto a una sceneggiatura piatta, ripetitiva e senza direzione, sperando forse nella verve del sempre ottimo Mc Conaughey. O si illude che basti parlare (ancora?) della discesa agli inferi di criminali, antieroi e pseudo-boss della droga dal volto umano per catturare, sorprendere lo spettatore. Che è sempre più disilluso e annoiato, anche a giudicare dall’accoglienza tiepidina di pubblico e critica oltreoceano: e questa volta assolutamente a ragione.

Cocaine – La vera storia di White Boy Rick di Yann Demange, con Richie Merritt, Matthew McConaughey, Bel Powley, Jennifer Jason Leigh, Rory Cochrane.

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