La realizzazione personale di un borghese non vale il denaro che costa

In Letteratura

Class comincia come un articolo di satira, ma poi diventa un romanzo, un romanzo sulle velleità artistiche dei rampolli della borghesia romana

Class di Francesco Pacifico è un libro che per molti aspetti mi ha fatto sentire a casa. Nelle sue frasi sentenziose e raffinate, in cui ogni più piccolo dettaglio descrittivo viene assurto a giudizio morale, ho ritrovato con piacere l’autore di quei cinici quanto gustosi articoli su IL che qualche anno fa allietavano i pomeriggi di noia nel mio vecchio ufficio, e che mi hanno fatto scoprire l’affascinante manipolo di scrittori che ruota intorno a Minimum Fax.

Ma non solo. La critica alle velleità artistiche dei rampolli della borghesia romana (che poi forse sono le stesse di quella milanese, con le dovute variazioni sul tema) è argomento ormai talmente frequentato da non creare disagio neanche in chi – come la sottoscritta – dovrebbe probabilmente esserne il bersaglio. Class è così ben inserito nel sistema che pretende di distruggere, che i suoi utenti principali sono anche le sue vittime; le quali però lo leggono per farsi due risate, e ritrovare il ritratto piacevole di qualcosa che conoscono. Qualcosa che – per l’appunto – in qualche modo le fa sentire a casa.

Ovviamente poi le cose sono un po’ più complesse di così. Innanzitutto perché Class comincia come un articolo di satira, ma poi diventa un romanzo. In apertura troviamo infatti essenzialmente la critica millimetrica e immancabilmente ironica ai romani figli di papà che per “realizzarsi” vanno a vivere a New York. Frasi sentenziose, apparentemente incontrovertibili, in cui ogni piccola abitudine è specchio di un modo di essere, dell’appartenenza a un tipo umano facilmente riconoscibile. Esattamente quello che ti aspetti da Pacifico.

Una volta superate le prime pagine, però, il tono cambia notevolmente: tra le pieghe della critica, prende forma la vicenda di alcuni personaggi a cavallo dell’Oceano. Per prima compare la Sposina: Ludovica, romana benestante, moglie di Lorenzo, ossessionata dal di lui successo, dalle proprie malattie e dal giudizio degli altri. Poi è la volta di Nicolino Berengo, sensibile e paranoico giornalista, che tira avanti grazie alle generose paghette di papà. Parte della sua vicenda e della sua contorta filosofia di vita ci vengono raccontate in un’infinita (e francamente faticosa) nota a piè di pagina, che raccoglie gli appunti sul suo conto raccolti dal premio Pulitzer James Murphy, il quale vagheggia di scrivere un romanzo sul suo eccentrico amico.

Nella terza parte, da New York torniamo a Roma, dove assistiamo alle avventure e soprattutto alle paturnie pseudo religiose di Gustavo Tullio, ripercorrendo il suo cammino da capo scout prepotente a bigotto e frustrato padre di famiglia che sogna di tradire sua moglie con la Sposina. Dopodiché passiamo a esplorare le derive estreme della vita di Sergio, un passato da figlio e fidanzato premuroso, un presente da scout letterario alla spasmodica ricerca dell’approvazione altrui.

E poi ancora, la giostra continua, tenuta insieme dai labili fili che costruiscono la trama. Torniamo a New York e poi di nuovo a Roma insieme a Lorenzo, l’ambizioso ingenuotto filmmaker che ha sposato la Sposina. Uno che – e ho detto tutto – la moglie chiama affettuosamente “Muccino”.

Chi ci racconta quasi tutta la storia, rivolgendosi ai protagonisti con uno sprezzante ma anche disperato “tu” è Daria, ex amante di Tullio, Sergio e Berengo, comparsa tangenziale nelle vicende narrate, ma soprattutto morta. E condannata per non si sa bene quale ragione alla condizione di “voce”: come un fantasma, infatti, Daria può muoversi nel tempo e nello spazio e soprattutto “entrare” nei personaggi a cui si rivolge e che pure non comprende, dando vita a un’interessante narrazione intima ma quasi mai empatica.

Tuttavia, più si procede nella lettura, più le percezioni di Daria si fanno confuse. Come se la sua coscienza andasse pian piano disperdendosi e confondendosi con quella degli altri personaggi. Fino ad arrivare al finale, in cui voci, tempi e situazioni si susseguono senza soluzione di continuità. Come se in prossimità della fine le coscienze si fondessero in un’unica esperienza confusa.

Interessante sotto questo profilo notare che Daria è l’unico personaggio che ama la letteratura e l’arte più della vita e dello status di artista (“Mi piacerebbe […] che tu provassi per una settimana a lavorare in ufficio facendoti un’ora di macchina ogni mattina e ogni sera, per poi stare a casa a vivere il tuo amore per le lettere […] in piedi fino alle tre di notte per leggere e recensire un libro gratis per “Alias” o “Nazione Indiana” solo perché ci tieni, perché l’amore ti fa restare sveglio fino alle tre di notte, vorrei vedertelo fare per qualche giorno”). Forse anche per questo giudica con tanta durezza gli infelici borghesi mantenuti a New York. E forse proprio per questo è a lei che l’autore affida il ruolo di narratrice principale.

In effetti la storia di Class è solo in parte la storia di Daria. Eppure sembra che la sua condanna a questa condizione di puro linguaggio, goccia cinese che non ha un cranio da consumare sia dovuta a una qualche colpa commessa nelle vicende narrate. Illuminante in questo senso l’epigrafe di Padre Kaczmark, che assimila le parole al “fuoco purificatore” del purgatorio cattolico; vale a dire allo strumento attraverso cui l’anima deve passare prima di tornare al cospetto di Dio.

Quello della colpa è forse allora il vero fulcro intorno a cui ruota tutto il romanzo: non solo Daria, ma tutti i personaggi di Class ragionano in termini di peccato e punizione. È così – ovviamente – per il cattolicissimo Tullio, ma anche per lo strampalato Berengo, per Ludovica, Sergio, Lorenzo… ognuno di loro in un modo o nell’altro si ritrova a pagare il prezzo della propria vanità. Moralismo? In realtà sì, parecchio.

Ad amplificare il tema della punizione c’è quello della malattia: che spesso (soprattutto nei personaggi newyorkesi) sconfina nell’ipocondria e nella paranoia. Quasi tutti i protagonisti hanno attacchi di panico, crisi d’ansia, paura che gli venga questa o quella malattia, ma tendenzialmente – a parte Daria – sopravvivono. Gli unici che si ammalano sul serio, e che poi a volte muoiono, sono i genitori. Che sono in fondo i burattinai di Class, al limite tra il generoso, l’impotente, lo sprovveduto e il crudele. Comprano case in giro per il mondo ai loro rampolli, continuano a riempirgli il portafogli, a finanziare le loro velleità, il loro bisogno di sentirsi unici e inimitabili. In quest’opera i protagonisti sembrano essere quello che sono sempre per una reazione ai loro genitori. I figli sarebbero quindi l’ennesimo prodotto di una società consumistica, e pertanto dovremmo considerarli delle vittime? In un’intervista su Rivistastudio, Pacifico sembra suggerire una lettura di questo tipo. Ma secondo me non regge. Troppo facile prendersela con i genitori perché tengono i figli “in quel luogo di mezzo in cui stanno i bamboccioni”. Sono i figli a non essere in grado di emanciparsi… ma questa forse è un’opinione mia. Che forse quest’estate vado a cercare me stessa a New York.