Cinquant’anni non sono bastati. Norma alla Scala va in confusione

In Musica

C’era grande attesa per questa nuova edizione della celebre opera di Bellini (la precedente risale al 1977, quasi mezzo secolo fa, targata Gavazzeni – Caballé). E invece niente. Il regista Oliver Py non è riuscito a caratterizzare un personaggio così tragicamente inciso. Una speranza: che Fabio Luisi salvi le repliche con la sua direzione

Vi racconto una storia. No? La racconto lo stesso. É una storia di teatro. Cioè di vita vera.
1831. Un giovane musicista siciliano, trent’anni appena compiuti, bravo e bello, occhi azzurri, capelli chiari, evidente linea normanna, per l’inaugurazione della stagione della Scala (26 dicembre, Santo Stefano), scrive una “tragedia lirica” di ambientazione storica in tutta evidenza ispirata al mito di Medea. Per la verità il libretto del suo poeta di fiducia, Felice Romani, attinge a una Medea di secondo grado: una tragedia “di prosa” intitolata Norma ou L’Infanticide, che Alexandre Soumet, accademico di Francia, ha debuttato all’Odéon di Parigi in aprile. Pratica comune, comunissima, riscrivere soggetti e libretti altrui, ma Romani, che conosce il mestiere, pur non riconoscendo d’emblée il dovuto a Soumet (e per questo criticato), rifinisce i tratti della protagonista con sfumature di umana incertezza del tutto nuovi. La donna che canta e soffre nella Normadi Vincenzo Bellini (è lui il catanese alla conquista di Milano, dove si è trasferito da quattro anni e ha già messo a segno diversi colpi di successo), è una sacerdotessa druida che ha sporcato la sua purezza innamorandosi di un invasore, il proconsole romano Pollione (tenore), che la ricambia col più scontato dei tradimenti: seduce una “collega” più giovane, Adalgisa, anche lei sacerdotessa del dio Irminsul, e le promette di portarla in palmo di mano a Roma. Per punire l’amante (ma anche per sottrarli a un destino da schiavi), Medea medita di uccidere i due bambini avuti da lui. Alza il pugnale sul loro sonno innocente ma non affonda la lama: s’illude (tornerà da me?), si lacera nel pentimento per la tentazione orribile (una madre che uccide i suoi figli?), sceglie la generosità (affidare all’”altra” i suoi bambini, perdonare lei e l’amante), incolpa sé stessa fino a immolarsi sul rogo che punisce e purifica. Dopo una prima serata così così, la Norma di Bellini decolla in un trionfo di pubblico e di critica, oggi si dice così, che moltiplica le recite fino a trentacinque. È solo l’inizio di un amore folle: nell’Ottocento Norma tornerà in scena alla Scala più di 200 volte, nei primi anni del Novecento almeno trenta, Finché…

1952, 1955. Sul palcoscenico del teatro dei teatri si scatena un cataclisma: nella parte che centovent’anni prima era stata di una leggenda, Giuditta Pasta, della quale tutti, Bellini per primo, raccontavano con trasporto da amanti un canto e un’espressività sublimi, irrompe un soprano greco, non di nascita ma di nome, di anima e di corpo: Maria Callas, La sacerdotessa dei Druidi che celebra i riti propiziatori di divinità barbare, che trae gli auspici per trattenere o lanciare il suo popolo in guerra, che canta alla luna, la “Casta diva” che inargenta le “sacre antiche piante” sulle quali e con le quali si compiono i riti di una religione dominata dalla Natura, ha gli occhi di fuoco di Maria Callas, la voce imperfetta ma magica proprio perché imperfetta, superba, drammatica, tragica, di una cantante che i personaggi non li interpreta, li vive. Maria, “la Maria” da allora per tutti e per sempre, non canta, si trasforma, si trasfigura nei suoi personaggi, che siano la Violetta di Verdi, la Medea di Cherubini, e sopra tutti Norma. Su Youtube: c’è “Casta diva”, sublime, ad Amburgo, 1962 (Warner Classics). Ma se volete capire o almeno intuire come Maria Callas compisse il miracolo delle sue metempsicosi, andate al suo recital con Georges Prêtre e la Elbphilharmonie (NDR). Non è una scena d’opera, ma appunto, ancora più sconvolgente. Lei entra raggiante, tutta sorrisi e sguardi riconoscenti sul pubblico (che non vede o vede poco, era miope, il che la aiutava a isolarsi dal mondo). Inizia l’ouverture di Carmen. Maria comincia ad assorbire il sole e la luce di Spagna. Ondeggia la testa, alza il mento, lancia sguardi che alludono. Trasformazione a vista. Attacca la Habanera e la Callas non c’è più. C’è Carmen. Una donna che seduce, avverte, minaccia. “Se tu non m’ami, io ti amo, e se io t’amo, sta’ attento a te”. Occhi di fuoco. Braccia strette alle spalle sul decolleté col giro di diamanti. Le dita girano, girano, come gli uomini nelle mani di una donna impossibile da resistere. Erotismo puro. 

Volete l’animale da palcoscenico? Andate al secondo atto di Tosca, Covent Garden di Londra, 1962 (dieci anni dopo la prima Norma), con Tito Gobbi forse lo Scarpia più Scarpia di tutti. Qui c’è un saggio di ogni virtù da attrice pura, inarrivabile: lo scialle sciolto con eleganza, la sicurezza ostentata, l’arte di fingere nello sfilarsi un guanto, gli acuti che nell’indice teso mandano scariche elettriche al maschio mostro. La battuta che le “altre” gridano come straccivendole, “Quanto? Il prezzo?”, digrignata con rabbia. La decisione di uccidere artigliando il bicchiere di vin di Spagna.  Insomma si può dare torto a chi di Maria si sente vedovo ancor oggi, anche se non l’ha mai vista? 

I musicisti si dividono in due categorie: quelli baciati dal dio della Melodia, e quelli che no. Vincenzo Bellini è primo tra i primi. Nel suo dono si riconobbero musicisti di pari ipersensibilità come Chopin, che le sue arie se le suonava sul pianino Pleyel verticale che usava per fare lezione e tenere concerti in casa, sul quale avrebbe composto i Preludi a Maiorca. Bellini sacerdote del mistero melodico. “Casta diva” la quintessenza dell’Opera. 

2025. Venerdì 27 giugno, cioè settimana scorsa, Norma è riapparsa alla Scala dopo quasi cinquant’anni dalla sua ultima rappresentazione. Avete capito bene: cinquant’anni. Una delle opere più scaligere della storia non si dava nel suo teatro dal 1977, direttore Gianandrea Gavazzeni, spettacolo molto astratto con scene di Mario Ceroli e regia di Mauro Bolognini. Per la quarta volta Norma era Montserrat Caballé (onore a lei). Nemmeno Riccardo Muti, che della Scala è stato direttore per quasi vent’anni, ha osato dirigerla. La progettò, ne fece qualche assaggio in uno dei suoi viaggi dell’Amicizia per Ravenna Festival, con Violeta Urmana, ma non ebbe coraggio e materia. C’era d’aspettarsi una platea nervosetta alla Norma del nuovo millennio. Risultato? Una salva di fischi, ma non a tutti: allo spettacolo che Olivier Py, regista francese intelligente, autore di spettacoli divertenti e interessanti, tra cui una Thaïs di Massenet alla Scala tre anni fa, ha proprio cannato.  

Ossessionato dai pericoli di un’opera storico-mitica in costume, del luogo comune Galli-contro-Romani, Py ha scelto di trasporre l’opera al 1831 in cui debuttò. Ambientandola, con scene tra l’astratto e lo stilizzato, nella Scala pre-Cinque Giornate. Niente da dire, anzi. Proiettare le opere al tempo in cui sono state scritte è cosa comune e spesso chiarificatrice. Dunque: ambientazione neutra (scene e costumi di Pierre-André Weitz), impianto grande e rotante (un traliccio di metallo nero, una scalinata d’oro, quinte e scene diagonali che replicano il neoclassico del Piermarini). I druidi che diventano popolo dimesso e oppresso. Da chi? Dagli austriaci ovviamente, in bianche uniformi (figlioletti di Norma compresi). Niente di incongruo. I problemi iniziano quando il mistero e la magia della natura che la sacerdotessa Norma abita si annodano al traliccio e alla scalinata di metallo. Continuano quando i servi di scena in calzamaglia e a torso nudo serpeggiano senza sosta con fare lascivo che (forse) allude agli amori puri e impuri del triangolo Norma-Pollione-Adalgisa. Proseguono quando i suddetto servi di scena fanno girare a destra e a sinistra uno specchio da camerino con scritto sopra MEDEA (ma dai!), per avvertire che siamo a teatro. Finiscono quando il rogo finale, annunciato da fiamme vere sui gradini della scalinata, lascia il posto al plotone di esecuzione che fucila Norma e Pollione (questa proprio al pubblico non è andata giù). 

Ma al di là di tutto, Olivier Py non ha fatto il regista. Fuori dalle invenzioni di contorno – le coreografie di Ivo Bauchiero era meglio che non ci fossero -, ha lasciato i cantanti alla loro gestuale routine. Ha concesso al Pollione di Freddie De Tommaso, tenore da grevi anni Cinquanta, a sbracciarsi come un bullo. Non ha trovato, Py, un “carattere” per un personaggio così tragicamente inciso come Norma. Si temeva dai vedovi della Callas una certa cattiveria nei confronti di Marina Rebeka, che a parte qualche sciocco buh alla fine, si è conquistata un successo di stima. Ha tecnica e merita rispetto, ma non esalta la sua Norma per espressività, intensità, colori, fascino. Sa fare meglio di quel che ha mostrato alla prima. A parte Michele Pertusi (Oroveso), sicuro anche nelle situazioni difficili, l’ansia si toccava con mano. Nelle repliche tutto si rinsalderà, speriamo, anche la direzione discontinua, angolosa, a tratti rigida di Fabio Luisi, che pure dovrà trovare nuovi equilibri nella dicotomia tipicamente belliniana tra gesti strumentali estroversi e finezze timbriche. 

Due le certezze di questa Norma: l’Adalgisa di Vasilisa Berzhanskaya, eccellente, quasi da protagonista, e il Coro preparato come-si-deve da Alberto Malazzi (ma siamo viziati, ci abbiamo fatto l’abitudine). Norma che torna nel suo teatro dopo cinquant’anni e deve farselo bastare. C’est la vie.

Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala: Vincenzo Bellini Norma. Dirige Fabio Luisi, regia di Olivier Py (repliche: 4, 8, 11, 14, 17 luglio).

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