Il suo film, che esce il 29 settembre, il desiderio di far divertire la gente perché adesso è meglio così, un presente che non ama e Trump che, dice, non vincerà, il debito con i grandi del cinema europeo: in una suite veneziana Woody Allen ci ha raccontato…
Quando uno come Woody Allen, alias Stewart Konisberg, classe 1935, 1 dicembre, ha girato oltre 50 film, senza sottilizzare sugli episodi, ha scritto libri, commedie, articoli, sketch per la radio, ora anche una serie tv, ha commentato con ironia la Torah, si è identificato in Dostoevskji, in Bergman, in Fellini, ha girato il mondo con preferenza Parigi e Venezia e snobbando il sole di Los Angeles, ma con la testa non ha mai lasciato la sua Manhattan; quando uno così, che gira un film e un quarto l’anno e ha sempre nuovi progetti, presenta una sua nuova opera, che senso ha giudicare l’ultimo titolo senza tener presente tutta la sua brillante carriera?
Insomma Woody, con la sua parlata tentennante (invenzione del doppiaggio italiano di Oreste Lionello), è un’icona, uno stile, un modo di concepire la vita e il cinema, un modo di essere perdenti di successo, di amare con difficoltà le donne ma di farsi tradire con facilità, è l’arte di vedere le tragedie con humour come sanno fare i grandi talenti yiddish, pur in regime di ateismo più volte ribadito: nel curriculum ad ottovolante di Woody, ogni film li vale tutti e tutti lo valgono, per citare Sartre (gli piace di sicuro).
Nella suite di un pregiato albergo di Venezia (non al Lido, giammai…) dove ama scendere con famiglia, girovagando poi per calli e campielli tra turisti stupiti che non osano chiedere il selfie, mi ha confidato che ora, a 81 anni o quasi (si tratta di aspettare fino al 1 dicembre), ama molto far divertire la gente, più che avvertirla dei drammi incombenti: «Sono due gradi funzioni dell’artista nei confronti dell’umanità e hanno dato entrambi un grande contributo, ma oggi conviene far sorridere». Per questo le ha frequentate entrambe con successo, ed in questo nuovo film, al cinema dal 29 settembre, dal titolo alla Scott Fitzgerald Cafè society, ancora una volta mescola le carte: con l’arte della commedia fa passare messaggini amarissimi sullo stato delle cose non solo americane, accarezza ma dentro la mano c’è un pugno, come in una vecchia canzone di Celentano.
«Non amo il presente», confessa, «perciò preferisco ambientare i miei film nel passato prossimo che è più gradevole e divertente. Oggi la finanza controlla e costringe il cinema e la tv ha abbassato notevolmente la qualità e il tasso di ricezione del pubblico, quindi dobbiamo un poco adeguarci tutti. Io stesso ho girato una serie, Crisis in six scenes per Amazon, che è una cosa comica, tenendo presente che la si potrà vedere anche in tv, sui computer, sui tablet. Ma la storia che giro da fine mese sarà una storia degli anni ’50 a Long Island e Cafè society, per la prima volta in digitale, per la prima volta col vostro Vittorio Storaro, torna indietro negli anni ’30 e mi permette di utilizzare il glorioso cinema che fu». E, pure, quella gloriosa colonna sonora, di quel mazzo di pezzi unici come Gershwin, Berlin, Rodgers e Hart, Porter che sono stati il suo asso nella manica da sempre.
Nei meandri del racconto e su quei titoli di testa in stampatello, mai cambiati da decenni, scorrono nomi giovani e famosi che per lui recitano a paga sindacale e non fiatano sugli orari, le location e i ciak ripetuti. Stavolta sono della partita, in costume hollywoodiano come Ave Cesare dei Coen, il bravissimo Jesse Eisenberg, Kristen Stewart (l’eroina di Twilight!), Steve Carrell (il coach di Foxcatcher), Parker Posey. In 96’, Woody non esagera quasi mai, racconta col suo miglior cinismo il viaggio di un ragazzo impacciato, ovviamente oppresso dalla famiglia ebraica osservante, da New York al sole californiano, perché a Los Angeles lo zio fa il producer, il pierre, ha a che fare con i vip del cinema che negli anni ’30 sono il top del top. Ha l’occasione di sedurre Vonnie, che però all’ultimo cambia idea, costringendo il ragazzo a tornare a casa, dove un altro parente, il fratello gangster, lo assume per il suo locale notturno che diventa di moda, ritrovo di una cafè society che comprende la mondanità e la criminalità come nelle storiche occasioni da gangster movie. E qui ritroverà per caso la sua bella, passata la sbronza dell’ingenuità giovanile, e forse le fila dei sentimenti si riannodano.
Con Allen non si può mai giurare su niente: ma resta il fatto che Cafè society dopo il magnifico Blue Jasmine (che parlava eccome del presente, pur citando il Tram chiamato desiderio di Williams) è una delle sue commedie più carezzevoli e spietate, un ossimoro che solo lui coltiva con tanta costanza, identificandosi in decine di alter ego lungo le sponde di una carriera sviluppata a Manhattan, ma poi esiliata con divertimento a Roma, Venezia, Barcellona, Parigi e chissà dove alla prossima.
«Tornerei a Roma, due mesi meravigliosi, i panorami, la gente, le passeggiate, i ristoranti, i cibi…». Intanto gli piace molto il documentario Acqua e zucchero che la vedova del suo direttore della fotografia Carlo di Palma, con cui ha girato 11 opere, gli ha fatto vedere in anteprima, dati i rapporti di famiglia. E di questo nuovo film sembra soddisfatto: è una perla della sua infinita collana, dove mira al cuore dei grandi peccati mortali americani: violenza, soprusi, corruzione con un ping pong dialogico così riuscito che vorremmo non finisse. Un distillato di amarezza ma servito con molto zucchero, dove ci sono le impronte digitali del suo cinema spiritoso, col ritmo di un song di quei suoi musici amatissimi, mentre cita le ville di Beverly Hills: qui Spencer Tracy, là Joan Crawford, più in là Robert Taylor il marito di Barbara Stanwyck.
Resta il fatto, come dice una battuta, che “la vita è una commedia scritta da un sadico”, quindi riecco in pista il suo pessimismo universale che non prevede neppure un castigo per ogni delitto, ci sono crimini e misfatti che restano tali. Ma non è che Allen vive in un mondo solo suo, nella sua Manhattan da ricchi intellettuali, impegnato a rimpiangere quegli anni belli in cui a New York arrivava il miglior cinema europeo e lui correva al cinema ogni giorno ed ogni giorno scopriva un capolavoro, mentre oggi degli italiani “giovani” conosce, apprezza e ama solo Sorrentino in cui riconosce il dna felliniano. «L’influenza dei maestri è positiva ed è una pratica seguita in tutte le arti: io devo dire grazie a Bergman, Fellini, Truffaut, come molti altri americani a partire da Scorsese ad Altman: siamo tutti sulle spalle dei grandi maestri europei».
E quanto al presente storico, è sicuro di una cosa: «Trump non vincerà mai, mai andrà al potere un uomo così, né da noi né altrove: non ha speranze». Speriamo che sia anche un profeta.