Blande lezioni di tolleranza, conflitti interrazziali soft nell’hit francese “Non sposate le mie figlie” e nell’americano “Black or White” con Kevin Costner
Non sposate le mie figlie di Philippe de Chauveron arriva in Italia sull’onda di un grande successo: in Europa ha incassato 130 milioni di euro e solo in Francia ha radunato 12 milioni di spettatori. Numeri da record, in questi tempi di botteghini piuttosto magri.
Viene da chiedersi il perché, trattandosi di una commedia come tante, infarcita di cliché e stereotipi, con una folla di personaggi ridotti a semplici macchiette, battute piuttosto scadenti, siparietti comici banali e un ritmo tutt’altro che travolgente. A ciò si aggiunga il fatto che nessuno degli attori, pur pregevoli, è un divo di fama mondiale.
E allora, come si spiega? Partiamo dalla trama: i Verneuil, ricchi borghesi di provincia, cattolici e conservatori, si ritrovano con tre figlie sposate con un musulmano, un ebreo e un cinese, e una quarta fanciulla in procinto di convolare a giuste nozze con un giovanotto di colore, seppure cattolico. Indovinate come andrà a finire?
Immaginate pranzi e cene di famiglia funestati da battibecchi e pregiudizi, razzismi incrociati e svenimenti, scontri feroci (anche fisici) e timide prove di tolleranza reciproca, e poi immaginate cosa può succedere se qualcuno, proprio la vigilia di Natale, si mette a intonare in salotto la Marsigliese, con tanto di mano sul cuore e occhi lucidi di commozione. Si finisce a tarallucci e vino, diremmo noi.
E dopo aver riconosciuto che siamo tutti un po’ cattivi (cioè razzisti e imbevuti di orribili pregiudizi) possiamo consolarci scoprendoci tutti un po’ buoni, cioè capaci – basta che ci mettiamo un po’ d’impegno! – di imparare a rispettare gli altri accettandone la diversità.
Con tutta evidenza, ciò che ha attirato nelle sale il pubblico è proprio il tema trattato: i conflitti aperti nella nostra società sempre più multietnica, proprio di recente esplosi nella strage di Charlie Hebdo, sono qui ricomposti senza gran fatica in base a una ricetta facile, fatta di buon senso e buona volontà.
Troviamo la stessa ricetta anche in un altro film, l’americano Black or white di Mike Binder, ma dovremmo dire di Kevin Costner. È solo grazie alla sua ostinazione (e ai suoi soldi), infatti, che questo film ha visto la luce, anche se l’uscita negli States lo scorso weekend, nonostante la presenza di un divo come lui (anche se un po’ appannato dagli anni), non ha fatto sconquassi al botteghino.
I temi trattati sono pure qui il razzismo, le difficoltà di convivenza in una società multietnica, l’apprendistato alla tolleranza come unica possibile via d’uscita, ma invece della commedia, il genere scelto è il legal thriller. In un’aula di tribunale, dove si svolge buona parte del film, due nonni (il ricco avvocato bianco Costner e la rampante nera in carriera Octavia Spencer) si contendono senza esclusione di colpi la custodia di una dolce nipotina, una ragazzina mezza bianca e mezza nera, orfana di madre (bianca, morta di parto) e abbandonata dal padre (nero, povero e tossico). E anche in questo caso finisce a tarallucci e vino (in salsa americana, ovvio, quindi rinunciando all’alcol e nuotando in una comoda piscina californiana).
In entrambi i film, che più lontani non potrebbero essere per stile e linguaggio, a prevalere è l’idea che dobbiamo essere ottimisti, perché la convivenza fra etnie (e religioni, e culture) è la cosa più semplice del mondo: basta imparare a conoscersi e a volersi bene. Concluderei con una domanda: ma il compito del cinema (e della letteratura, dell’arte in generale) qual è? Indorare la pillola o cercare la verità?
Mostrarci il mondo quale dovrebbe essere, felice, solidale, pacifico, o come davvero si presenta, con tutte le sue contraddizioni e le ferite aperte? Insomma, trattarci da bambini o da adulti? Allo spettatore la non troppo ardua, in questi due casi, sentenza.
Black or White, di Mike Binder, con Kevin Costner, Octavia Spencer, Jennifer Ehle, Andre Holland