Biennale 2019. Tempi davvero interessanti

In Arte

Ha aperto i battenti in questi giorni la 58esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, curata da Ralph Rugoff e intitolata May You Live In Interesting Times, che resterà aperta al pubblico fino al 24 novembre 2019. Il titolo è un’espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini; “tempi interessanti” appunto, come quelli che stiamo vivendo. Una mostra ben costruita, che regala una panoramica sull’arte di oggi esaustiva anche se con toni leggermente politically correct, con ottimi padiglioni nazionali che presentano quasi tutti mostre di altissimo livello e tra cui spicca la Lituania, Leone d’Oro a furor di popolo, mentre delude l’Italia, sia per il Padiglione che per le artiste presenti nella Mostra Internazionale.

“Platea dell’umanità non è un tema, ma un’affermazione di responsabilità di fronte alla storia, agli avvenimenti del nostro tempo: è una dimensione”. Così il compianto Harald Szeemann presentava Platea dell’umanità, la 49esima edizione della Biennale di Venezia da lui curata nel 2001, la prima del millennio, con lo sguardo rivolto al mondo nella sua interezza, dalle nuove economie in ascesa al terzo mondo, lasciando però cadere quel velo di retaggio colonialista che trasformava tutto in esotismo da Esposizione Universale. Un appello a “vedere la globalizzazione come incontro con l’altro sotto forma di opera d’arte” e non come contrapposizione tra culture o annullamento della propria identità locale, reso allora ancor più impellente e concreto dall’attentato dell’11 settembre, avvenuto quando la mostra era in pieno svolgimento.

Oggi, a quasi vent’anni da quei giorni, l’epopea multiculturale iniziata da Szeemann trova una sua piena realizzazione nel racconto dei nostri tempi che ne fa Ralph Rugoff, curatore della 58esima Esposizione Internazionale d’Arte apertasi in questi giorni a Venezia. Il titolo scelto, May You Live In Interesting Times, ripreso da un’espressione inglese, può essere letto sia come una maledizione, nella quale l’espressione “interesting times” evoca l’idea di tempi sfidanti e persino minacciosi, che come un invito a vedere e considerare sempre il corso degli eventi umani nella loro complessità.

Arthur Jafa, The White Album, 2018

Più di 70 artisti sono stati invitati ad esporre con due opere, una nella Proposta A in mostra all’Arsenale e una nella Proposta B al Padiglione Centrale ai Giardini, per mostrare una visione generale della funzione sociale dell’arte che coniughi appagamento e pensiero critico e per sollevare domande sui modi in cui delineiamo confini e frontiere culturali, illuminando in vario modo il concetto, espresso sia da Leonardo che da Lenin, secondo cui ogni cosa è connessa. Così il curatore presenta la sua mostra, che risulta effettivamente coerente con questi pochi ma solidi principi, i quali, pur rimanendo lievemente sui toni del politically correct, evitano quelle macchinosità curatoriali contorte che non farebbero, come già hanno fatto in passato, che complicarne la fruizione.

La Platea dell’umanità si realizza dunque nei fatti concreti, come la presenza in mostra di ogni medium artistico, con la pittura di George Condo, la scultura di Carol Bove, le bellissime fotografie di Zanele Muholi, la realtà virtuale con tanto di visore da indossare di Dominique Gonzalez-Foerster, la monumentalità estrema dell’audiovisivo di Ryoji Ikeda o il sanguinolento Robot Kuka di Sun Yuan e Peng Yun, solo per fare degli esempi. E si realizza nella presenza di artisti di ogni identità e provenienza, senza che a queste venga data enfasi esotica o di genere, così come nella composizione del pubblico e di una sala stampa compiutamente internazionale, vero melting pot di etnie perfettamente integrate tra loro.

Jimmie Durham, Eurasian Lynx, 2017

La mostra è articolata, perfettamente allestita all’Arsenale e malamente insaccata ai Giardini, e davvero presenta opere e artisti per ogni gusto e interesse, quasi sul modello del circo Barnum a più piste e palcoscenici, nei quali ognuno trovava quel che più gli piaceva semplicemente girandosi. Molteplici e discordi, infatti, sono state le voci raccolte e i primi commenti, soprattutto dopo le premiazioni che hanno visto assegnare il Leone d’Oro allo statunitense Arthur Jafa per The White album – un disturbante collage video da YouTuber che crea uno stato di sospensione provocato dalla decontestualizzazione e dal montaggio, un opera che ha esaltato molti e lasciato perplessi altri, presentato assieme a delle sculture a guisa di pneumatico a mio avviso imbarazzanti – e il Leone d’Argento per il miglior giovane artista al cipriota Haris Epaminonda, con la sua riedizione patinata alla Versace – con marmi, ottoni e richiami classici – di un’accademicissima installazione artepoverista.

In mostra si incontrano nomi celebri come l’indiscutibile Maestro Jimmie Durham, meritatissimo Leone d’oro alla carriera; Christian Marclay, che riscalda ancora un po’ la stessa minestra; la sempre intensa e impegnata Teresa Margolles, che ha ricevuto una giusta menzione d’onore; un evocativo Tomàs Saraceno, che disegna nuvole alle Gaggiandre; o l’elegantissima Rosmarie Trockel, con le sue rigorose installazioni fotografiche, assieme ad artisti giovani, promesse e nuovi divi. Tutti con due lavori ciascuno, molto diversi tra loro, per “celebrare la capacità dell’arte di stimolare domande e confronti complessi”.

Le fotografie di Zanele Muholi all’Arsenale, Biennale di Venezia 2019

L’operazione di fondo è efficace e pulita: come il Barnum di cui sopra, Rugoff ci mostra che l’arte è bellezza ma anche impegno, esponendo tutto ma anche il contrario di tutto. Forse anche un po’ troppo, visto la tendenza all’oblio mnemonico che si manifesta poco dopo l’uscita, senza che niente spicchi per eccesso né per difetto.

Ma a mettere d’accordo tutti ci sono i padiglioni nazionali, i quali – a parte la tristezza nel vedere il padiglione del Venezuela chiuso con un lucchetto dopo che agli artisti designati è stato ritirato il passaporto – in questa edizione hanno finalmente alzato il livello generale che, in passato, tendeva troppo spesso fastidiosamente al ribasso.

Sun Yuan & Peng Yu, Can’t Help Myself, 2016

Straordinario per presenza scenica, leggerezza e coinvolgimento il padiglione della Lituania, vincitore a furor di popolo del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale: una spiaggia ricreata in un magazzino navale con ballatoio per il pubblico, dove gli spensierati bagnanti sottostanti sono in realtà cantanti di un musical in piena regola, con tanto di vinile in vendita al bookshop.

E altrettanto condivisa è l’opinione sul padiglione del Brasile, dove il video Swinguerra di Bárbara Wagner & Benjamin de Burca non solo “trasforma in danza la guerra” trattando con brillante leggerezza temi sociali complessi, ma crea anche una vera diva, la protagonista del lavoro che, con la sua eccezionale bellezza, dispensava autografi ai visitatori dell’opening.

Bárbara Wagner & Benjamin de Burca, Swinguerra, 2019

Notevolissimo e sorprendente anche il padiglione del Ghana all’Arsenale che, alla sua prima partecipazione in assoluto, regala un percorso elegante e intenso che trova il suo apice in  una delle opere più belle di questa Biennale, il film a tre canali di John Akomfrah le cui immagini potentissime lasciano gli spettatori in preda a uno struggente e poetico “mal d’Africa”.

Ma anche, in ordine sparso, la Croazia con le Tracce di sparizione di una società post bellica di Igor Grubić, l’Uruguay con la sintesi scenografica e discorsiva delle belle opere di Yamandù Canosa, il Canada con il meraviglioso, anche se impegnativo per durata, film sulla storia degli Inut del collettivo ISUMA, che regala momenti di pura poesia, la Russia con le atmosfere inquietanti e fascinose, in bilico tra romanzo russo e piglio reazionario, del regista Alexander Sokurov, o il padiglione della Grecia, con il bel gioco di camminare sui bicchieri di Panos Charalambous ma soprattutto con le ipnotiche storie in video della varia umanità di una Grecia ancora in dracme di Eva Stefani.

John Akomfrah al Padiglione del Ghana, Biennale di Venezia 2019

Questo e molto altro offre questa Biennale, tra Mostra Internazionale, Padiglioni e le moltissime mostre a latere, ufficiali e non, tra cui Gorky a Ca’ Pesaro, Leonardo e Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, Opalka alla Querini Stampalia, Pascali a Palazzo Cavanis e Kounellis da Prada. Delude invece l’Italia. Delude con il Padiglione, la cui labirintica ambizione installativa del curatore Milovan Farronato sovrasta inesorabilmente l’opera degli artisti, la mai risolta Chiara Fumai, il vetusto e retorico Enrico David e la brava Liliana Moro, che si trova però da sola a reggere tutte le aspettative sul padiglione.

E deludono anche le due uniche italiche invitate alla mostra internazionale, Ludovica Carbotta e Lara Favaretto, troppo sottotono e sottotraccia per essere notate. Una duplice delusione, questa, che è più vox populi che opinione personale, qualcosa su cui tutti chiacchierano ma che nessuno ammette e che pochi, almeno finora, scrivono, quasi ci fosse un riguardo, se non un ipocrita imbarazzo, nell’ammettere che stavolta, sulla Platea dell’umanità di questi Tempi interessanti, è come se non ci fossimo!

Lc 15- 11-32, installazione del regista Alexander Sokurov al Padiglione Russo, Biennale di Venezia 2019 © Mikhail Vilchuk

58. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, dall’11 maggio al 24 novembre 2019

Immagine di copertina: Rugile Barzdziukaite, Vaiva Grainyte, Lina Lapelyte, Sun & Sea (Marina), opera performance, Biennale Arte 2019, Venice © Andrej Vasilenko

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