Biennale Musica: una “Stella dentro” l’elettronica in cerca dell’opera-mondo

In Musica

L’edizione 2025 della rassegna veneziana vibra di sollecitazioni inconsuete tra sintetizzatori, campionatori e overdubbing. Drone metal, techno e afrofuturismo. Dimenticate d’inseguire la Forma. Queste musiche parlano tutte le lingue, chiedono di consegnarsi in una corporeità totale

Una scossa di non bassa magnitudo s’è avvertita a Venezia in questi giorni. L’hanno sentita quelli che cercano musica nuova (o antica, fa lo stesso) come ragione di vita e di resistenza alla povertà d’animo e di pensiero che ci devasta. 

Alla vigilia del suo settantesimo compleanno (ne ha sessantanove), la Biennale Musica ha fatto un balzo indietro nel senso migliore che si possa immaginare: abbassando l’età del suo pubblico di destinazione, tradizionalmente altino. Il programma congegnato da Caterina Barbieri al suo debutto come nuova direttrice (sì, direttrice) del festival di musica “nuova” più carico di anni, ha cominciato sabato 11 ottobre a far tremare prima la terra dell’Isolotto, poi il Teatro delle Tese dell’Arsenale, che sarebbe il cuore vero della Grande Venezia: il luogo, fuori dalla mischia insensata del consumo, in cui rimangono da ammirare, nella loro sobria eleganza, i magazzini e il bacino di carenaggio in cui la Serenissima assemblava ogni giorno le navi che battevano i mari per portare a casa la materia della sua ricchezza e per sventolare nel mondo la sua leggenda (della quale vive ancor oggi). 

La Biennale Musica numero sessantanove si è data un titolo, La Stella dentro, che non è solo bello ma corrisponde per una volta alla tensione che la muove e all’orizzonte che l’ispira (ha un senso anche la sua versione anglofona, The Star Within, perché insieme all’abbassamento dell’età ha anche allargato la geografia del suo pubblico concreto e ideale). La musica a forte tasso elettronico di cui il Festival di Caterina Barbieri si fa vibrazione fino al 25 ottobre con l’Arsenale come motore sempre acceso, è una costellazione di realtà che finora nessuna Biennale ha veramente scandagliato. Elettronica significa tutto e niente: non è nemmeno una parola, un orientamento stilistico, una realtà nuova o unica. Ieri, almeno fino agli anni Settanta-Ottanta, elettronica significava Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono, studi di fonologia, scuole consolidate, sperimentazioni confluite in accademie, intelligenze che potevano esprimersi attraverso strumenti rari, costosi, d’élite. L’elettronica di cui la Biennale ’25 fa vetrina è un’elettronica di base, che viene da ogni parte del mondo e da ogni angolo della società, cui basta un pc (non sempre) per generare flussi di materia sonora anche devastanti (questo l’aspetto a volte più pericoloso). Insomma un’elettronica democratica che consente di esprimersi anche a chi ieri sarebbe stato escluso dai circuiti della musica alta

Nei primi giorni della “sua” Biennale, Caterina Barbieri ha già buttato sul tavolo alcune carte dalle quali si può immaginare che cosa abbiano in comune le infinite differenze (di “macchina”, di metodo, di scopo, di estetica, di ideologia) in cui si materializza il fenomeno smisuratamente allargato dell’elettronica oggi. 

Il primo gesto era affidato a Chuquimamani-Condori, personaggio emblematico di molte cose insieme: radici boliviane, eredità culturale andina, libera identità di genere, combinazione di chitarra, tastiere, sintetizzatori e campionatori come strumenti per proiettare materiali “folk” in una forte dimensione digitale e post-digitale. La musica di Chuquimamani-Condori ci arriva con la scansione metallica di un’onda techno con “imperfezioni” poliritmiche, ma invoca un sognante sguardo verso il cielo e la stella Chuqui Chinchay che, dice la tradizione dei loro padri, è un dono dei queer. Acqua, molta acqua anche nella cultura del popolo Aymara di cui l’artista è portatore. E acqua non poteva non esserci nell’atto di apertura del festival: un corteo di barchini sonori sull’acqua dei canali per portare Chiquimamani-Condori e il fratello Joshua all’Arsenale per il set a due stagliato contro un sintonico tramonto veneziano. Stella fuori e stella dentro. Aver conferito a Chuquimamani-Condori il Leone d’Argento ha un valore di rottura molto programmatico nella Biennale di Caterina Barbieri.

Serata di respiro wagneriano, quella di sabato 11: dopo i sessanta minuti circa di Chuquimamani-Condori all’aperto, tre set di circa un’ora ciascuno si allungavano nel teatro delle Tese.  Iniziava Rafael Toral, portoghese, con una chitarra elettrica che insieme e attraverso passaggi elettronici diversi (nemmeno escluse le vecchie onde theremin) fa esplodere la classica chitarra elettrica in messe di voce che, se vogliamo cercare un modello nella memoria collettiva di chi c’era e di chi, non ancora nato, può comunque farsene un’idea, suona erede della Smashing of Amps di Jimi Hendrix, prima opera visionaria della nuova elettronica di oggi, una sessantina d’anni fa. E, più di recente, con le astrazioni di Bob Fripp, senza anche dimenticare certi assoli già visionari di Jimmy Page. Non a caso Toral riconosce un tributo nei confronti del jazz, che fa comparire accanto a sé e alla sua chitarra superamplificata nelle voci di diversi strumenti acustici – clarinetto, sax, flicorno e flauto – che vanno indietro nel tempo fino a Charlie Christian. Divaricazione non sempre felice.

Rafael Toral (foto @ Andrea Avezzù)

Il secondo set della prima nottata era forse il più perentorio e significativo nel mostrare di che cosa sia capace l’elettronica interattiva: Bendik Giske, norvegese, colosso biondo con dorati pendagli e semitunica, reso misterioso da una illuminazione di spalle che ne rende il profilo enigmatico e sfuggente, reinventa lo strumento più vissuto, sperimentato e lavorato del mondo afroamericano, il sax tenore, in un potente e veloce overdubbing. Giske suona, non si sa fino a che punto improvvisando, ma non importa, sopra quel che ha suonato istanti prima, mandato in eco da una console che lo governa. Giske in fondo dialoga con sé stesso, sul modello che sessant’anni fa Terry Riley aveva inventato e mostrato in una celebre Biennale Musica dedicata ai ripetitivi americani, insieme a Steve Reich e Charlemagne Palestine.  Riley lavorava con quel che c’era: un Revox a nastro che mandava in loop quel che suonava sull’organo elettrico e replicava su sé stesso in ripetitive variazioni. Questo dice altre cose sull’elettronica di oggi: nulla è veramente nuovo. Nuova è la infinitesimale microdefinizione con cui riesce a dividere e/o moltiplicare altezze e durate. 

Evocazioni extrasensoriali nel set ad alto regime energetico di Nkisi, fascinosa dea nera che con un apparato di Nord Wave 2, HPD-20 investe l’orecchio con una massiva onda elettroacustica in cui suggerisce di vedere fantasmi, fra cui visioni sonore di quel che i sopravvissuti dell’ultimo istante, quelli tornati indietro, riferiscono di aver visto e percepito “di à”. Il ricco set di percussioni che attornia Nkisi viene usato in forma del tutto antivirtuosistica, con pochi rintocchi del destino, e anche la vibrazione fisica di aria, muri e corpi è parte costitutiva del suono. 

Bendik Giske (foto @ Andrea Avezzù)

Nella giornata riempita dalla Elevations di Maxime Denuc – installazione di tre moderni e autocostruiti organi a canne, mossi da programmi che consentono di governare ciascuna canna singolarmente – e dalla molto massiva occupazione dello spazio della Speaker Music di DeForrest Brown, Jr., l’ascolto più sorprendente, quasi in controtendenza rispetto a tutti, era The Garden of Brokenness di William Basinski, definita un “requiem per tre pianoforti, percussioni e drone di vaporetto”. Titolo che mantiene quel che promette: il “messaggio” (si dice ancora?) è sospeso quasi del tutto in una dimensione acustica. Un modulo di poche note (per lo più tre) si ripete in permutazioni minime, costellate di pause imprevedibili, anche ai confini del silenzio. Le percussioni si limitano a creare aloni attorno alle distillazioni delle tastiere; i suoni ambientali di vaporetto e di elettronica aggiungono uno sfondo lagunare al non-discorso acustico che i tre pianoforti offrono, in totale non-violenza, a un ascolto sospeso, introspettivo, sempre mutevole, che costringe all’esercizio di attenzione ch’è costitutivo del pensiero minimalista.

Domani, giovedì 16, tocca a una leggenda della nuova elettronica, Laurie Spiegel, presentare in prima europea un suo classico del 1974 definita “opera seminale”: The Expanding Universe, nella versione per quattro chitarre elettriche trasformate in “vera e propria orchestra di livello cosmico”. Segue una Venice Revisited, ricostruzione e attualizzazione della Venice pubblicata in disco nel 2004 da Fennesz, chitarrista austriaco, altro nome ammantato di leggenda e che nelle sue apparizioni in Italia continua a catturare piccole folle di pubblico.

Meredith Monk (foto @ Hartwig Art Foundation Oude Kerk)

Preceduta e accompagnata dall’installazione Songs of Ascension Shrine, sabato 18 appare alla Biennale il simbolo vivente di ogni possibile musica trascendente: Meredith Monk offre di sé un concerto per voce/i, tastiere e violino (Teatro Malibran, ore 20) che la celebra come Leone d’oro negli ottant’anni della sua vita e nell’oltre mezzo secolo di presenza serena, profonda e costante del nostro tempo. Di natura così vasta, aperta e universale, la sua Voce, da risultare perfettamente in sintonia con lo spirito di questo Festival. 

Che cosa segnala la Biennale 2025? Un capovolgimento dell’ascolto. Dimenticate d’inseguire la Forma, di ostinarvi a riconoscere di quali elementi sia composto un pezzo, di prevederne gli sviluppi. Dimenticate tout-court lo Sviluppo, forma mentis della musica occidentale. Queste musiche vengono dal mondo, parlano tutte le lingue (anche nel pubblico di Venezia non è l’italiano a dominare), nascono nella compresenza di tutto l’udibile, chiedono e pretendono di consegnarsi in una corporeità totale. È la Biennale della musica che finora la Biennale teneva fuori dalla porta.

In copertina: Nkisi (foto @ Andrea Avezzù)

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