Nella rassegna di Atir dedicata all’arte della pace, una serata densa e affascinante che costruisce la pace attraversando la guerra tramite giovani di grande talento, che riflettono sul modo in cui apparteniamo ai luoghi: dalle case, al carcere, alla Bosnia, della ove i ricordi salvano: insegnano ma solo a patto di non imprigionare
“Sono felice che mio figlio non sappia niente della guerra. Io non gliela spiego. Ma la vendo a chiunque mi paghi” Una sintesi illuminante e solo apparentemente cinica di un presente in cui la memoria delle ferite si è trasformata in un souvenir per turisti: accade in molti luoghi, e accade a Mostar, centro non solo simbolico dell’Erzegovina con il suo ponte sulla Neretva il cui bombardamento è l’epitome della guerra nei balcani, e oggi, ricostruito come se la guerra non ci fosse mai stata, è un elegante tuffo nel medioevo tanto pieno di turisti da non potervi camminare e da cui, oggi come allora, giovani ansiosi di provare coraggio e incoscienza si gettano nel fiume da 24 metri. A volo d’angelo, come uno dei titoli più interessanti della nuova edizione della rassegna di ATIR La prima stella della sera, dove – nel parco di Chiesa Rossa, Michelangelo Canzi arriva con la apparente leggerezza che segue al volo senza rete, del perfetto stereotipo (volutamente tale) del bosniaco che accoglie i turisti: sorriso di prammatica, capello gellato e camicia improbabile, e l’ansia di una foto che fissi la memoria. Di chi è rimasto, scampato alla morte propria ma non a quella altrui, a quella delle vittime ma non a quella lenta e tragica, in vita, dei sopravvissuti; a un destino senza scampo ma non a quello che ha deciso per lui chi, tra una sera e una mattina, ha fatto iniziare una guerra, da un giorno al successivo ha diviso le famiglie, di sangue e d’elezione, in amici e nemici tracciando una riga, e poi la stessa guerra l’ha fatta finire, come al tavolo di un grottesco risiko dove le mani sporche di sangue firmavano trattati con nomi di città lontane, mentre a Srebrenica, 30 anni esatti fa, si contavano più di ottomila morti.
Dalla Bosnia di oggi, con la sua fame di sogni normali, ogni “crazy bosnian guy” ha imparato a farsi simile al mondo che l’ha fatto suo, perchè l’offerta segue la domanda, ed sono quelle vestigia – se per piacere macabro o per l’urgenza di toccare con mano l’inenarrabile per poterlo esorcizzare, è una risposta che sta a ciascuno – che oggi i Bosniaci offrono di sè, mentre le colline verdi portano ancora le tracce delle mine, e i muri di fronte a quelli degli eleganti caffè in stile ottomano sono traforati delle mitragliatrici. Si cerca ancora, la guerra, quando è abbastanza vicina ma non tanto da poterla toccare, eppure è più intensa che mai, l’esperienza di usare il teatro per entrare nelle scarpe di chi, in un istante spegne il sorriso per entrar dentro a un gioco ben più spaventoso, il tiro al civile, e gli stessi metri del ponte deve farli pregando che gli occhi del cecchino siano rivolti altrove.
Gli echi delle domande che arrivano dalla Bosnia si fanno allora sempre più pressanti, mentre un ragazzo oggi uomo chiede e si chiede: “per cosa stiamo combattendo?” e la risposta è un’identità che non è più la loro e forse non lo è mai stata, ma può incollarti addosso un’etichetta che vale una condanna nel tempo di un notte. Nella notte della guerra si gioca alla morte come a una roulette russa, dentro le guerre il sangue ubriaca e si fa strage come se le mani diventassero di altri. Si può sopravvivere, alla guerra, si può trasformare il mondo in un posto dove le ragazze nate dagli stupri usati come armi accompagnano i turisti, facendo di tutto per credere a se stessi mentre dicono che non sono figli degli stupri ma delle madri che hanno voluto dar loro una possibilità di futuro, lanciarceli a volo d’angelo, come nella Neretva. Ma poi? Quale mondo abiteranno, o abbiamo intenzioe di far abitare a loro e ai figli che verranno, da famiglie sorte senza più chiedersi a quale fazione si appartiene, che sognano soltanto la banalità del bene, sapendo che “il materiale del futuro è il più fragile che abbiamo inventato?”.
Ricordami, altrimenti scompaio: è quello consegnato al futuro da una pace sempre più lacera l’impegno al cui da voce il Bosnian guy incarnato da un Canzi straordinario, commovente e ironico, che sa portare il dolore con intensa misura e la lievità con acuminata, sarcastica intelligenza in un testo, firmato Federica Cottini come la regia, che sorprende per efficacia e precisione di costruzione, capaci di muoversi sul filo di temperature emotive senza inciampi. Se queste sono le nuove leve – della scena e della coscienza civica, c’è da essere molto ottimisti, e non è banale rendersene conto mentre puntualizza che “ognuno ha il diritto ad un posto dove stare” prendendo senza ambiguità le parti di tutti quei civili per cui un esercito ubriacato dal sangue ha deciso la guerra. È chiamato a fare anche questo, il teatro, in un mondo che – come il carcere Beccaria in cui opera ogni giorno don Claudio Burgio, a cui è affidata la “cartolina” che apre lo spettacolo, “toglie comunità a chi cerca una casa”. Il teatro può allora forse essere davvero lo spazio di alternativa, di evoluzione, per tutti quelli che, non visti, si perderebbero.
Del resto “dare una casa significa dar voce”: ed è sapendolo che, intorno alla casa e all’abitare uno spazio si muove lo studio del Collettivo tu kuur che ha aperto la serata, dove Amleto irrompe come linguaggio possibile, come gioco del teatro ma solo per il tempo necessario a dire un reale che ha bisogno di complessità, di mettere alla prova le strutture che sta provando a darsi, antiche o nuove che siano, di guardare con realismo a case diventate sempre più piccoli regni, rassicuranti o da dominare? eppure capace di domandarsi, come il bambino quando, dopo aver giocato alla guerra, cresce “cosa hai vinto, se hai sfasciato tutto?” Perchè oggi più che mai altro: un raffinato esercizio di cura, e di alternativa. Che parta dalle domande giuste.