Francesco Munzi firma un film di montaggio che in 70 minuti racconta il decennio che va dal ’68 al 1977: le lotte operaie, le stragi di stato, la rivolta degli studenti, per alcuni l’approdo alla lotta armata. E lo fa, senza tralasciare errori e tragedie e senza commenti, individuando il modo più coerente per raccontare quella storia e quelle storie: guardare non al leaderismo dei singoli, ma alla spinta dei tanti che condividevano la speranza di poter cambiare il mondo
Ha un grande merito Francesco Munzi, regista dell’interessante Il resto della notte (2008) e del bellissimo Anime nere (2014), per il modo in cui ha realizzato il suo ultimo film Assalto al cielo: ed è quello di non aver aggiunto nulla, se non qualche brano musicale, preferibilmente nello stile dell’epoca, alle immagini che, in poco più di 70 minuti, raccontano il decennio fondamentale della vita di tanti di noi (1968-1977): quel pezzo della storia del nostro paese che rivoluzionò anche il costume in cui ebbero particolarmente forza e significato le lotte sindacali e politiche degli operai e dei lavoratori italiani e conquistò la ribalta quel fenomeno strano, carsico, che, dal secondo dopoguerra ad oggi, tante volte è esploso per poi scomparire, lasciando tracce importanti in alcune occasioni e quasi nessuna in altre: il movimento degli studenti.
Munzi è nato nel ‘69, è un po’ più piccolo del maggio ’68 ma coetaneo dell’autunno caldo e della strage di piazza Fontana, presentata correttamente nel suo film come la vera funesta svolta del secolo. Che ridimensionò, nel generale clima di terrore e sconcerto, le tante mobilitazioni politiche che stavano cambiando l’Italia e avviò sostanzialmente la fine l’esperimento del centro-sinistra, riportando più a destra l’asse politico dei governi successivi. E che, soprattutto, dato che questa è la materia del film, iniziò a instillare in molti ragazzi della generazione che stava in quegli anni approdando alla militanza, il dubbio che per competere con una simile controparte (uso un vocabolo a quei tempi molto popolare), per mettersi al livello di una strage di stato, cioè di una smisurata violenza istituzionale capace di fare 17 morti e 87 feriti, ci volesse quel salto di qualità che anni dopo diventò la lotta armata, la tomba del ’68 e del ’77. E la causa di un numero spaventoso di lutti, tragedie, omicidi, suicidi.
Saggiamente, a tutto questo Munzi, osservatore esterno non per scelta (è evidente che questo pezzo di storia italiana lo appassiona, eccome) ma per motivi anagrafici, non aggiunge una sola parola (sono già tante quelle dei protagonisti) di commento; e tanto meno analisi a posteriori sue o di esperti, in troppi casi incapaci di andare oltre l’applicazione di teoremi e teorie politiche, sociologiche, giudiziarie, filosofiche, nate magari prima, o dopo, o comunque al di fuori di quei fatti. E non per rilanciare la tanto discussa e discutibile, forse addirittura presunta (e per fortuna, direi) idea che il documentario sia assolutamente oggettivo in quanto tale. Qui davvero le immagini dicono tutto, della passione di chi si batteva per un mondo migliore, dell’entusiasmo, anche del pressapochismo culturale del momento. Del dolore terribile di chi dovette tenere unita Piazza della Loggia a Brescia dov’era appena scoppiata una bomba e di chi ascoltò, smarrito o già un po’ convinto, durante quel celebre congresso finale di Lotta Continua, qualcuno iniziare a parlare della necessità di armarsi.
Se c’è un appunto da fare a Munzi e ai suoi collaboratori, trattandosi non di una strizzata d’occhio ai “reduci” ma di un documentario di montaggio giustamente rivolto a tutti gli spettatori di oggi, è l’eccessiva avarizia di riferimenti di Assalto al cielo. Qualche data, qualche luogo, qualche nome di chi parla, comizia, dialoga, si fa intervistare, non avrebbe nuociuto alla comprensione di chi in quel tempo e in quei luoghi non c’era. Dalla battaglia di Valle Giulia a Roma al festival di Re Nudo al Parco Lambro scorrono tanti episodi importanti, della Storia e delle storie di quegli anni, il teatro agit-prop e le sognanti assemblee “di corpo e di cuore” della Bologna ’77, le terribili interviste ai pietrificati passanti milanesi, che non una parola sanno dire a commento della strage di piazza Fontana e la dignitosa, struggente, doppia intervista ai genitori di Walter Alasia, giovane brigatista che morì a Sesto San Giovanni sotto le finestre di casa sua dopo aver aperto lui il fuoco sui carabinieri che lo stavano per arrestare. Questo per citare i due momenti forse più alti del film, ma ce ne sono davvero tanti.
Impaginato con un piccolo prologo e tre movimenti (il doppio senso politico-musicale non è ovviamente involontario, presumo), quasi come una sinfonia, Assalto al cielo è il racconto di quell’Icaro politico che fu il movimento dei giovani di quegli anni: come il gabbiano ipotetico di Qualcuno era comunista, la celebre canzone di Giorgio Gaber, tentò di volare davvero in alto per essere migliore, individualmente e collettivamente, e per tentare di cambiare davvero il mondo. Questo aspetto, al di là dei tanti limiti politici, culturali, comportamentali delle idee e persone di allora, mi pare che Munzi l’abbia davvero colto e in qualche modo abbracciato. Scegliendo, tra l’altro, in pieno spirito 68-77ino, di non dare risalto a leader e figure carismatiche o mediatiche, ma di registrare ciò che di davvero collettivo e condiviso c’era nei movimenti e nelle situazioni di lotta, di contestazione, anche di discussione di allora. Oggi siamo nella desolante era del partito-leader, dell’elezione diretta, magari on line, del “capo”, dell’uomo solo al comando: e al di là del fatto che Obama non è certo Trump, né Renzi è Berlusconi, né Grillo è Salvini, gli esiti complessivi, almeno parlando del caso italiano, della dilagante personalizzazione della politica appaiono modesti. Tutto ciò non ha reso migliori, non dico le relazioni umane, ma nemmeno il processo legislativo o l’efficienza dell’amministrazione.
Forse varrebbe la pena di riconsiderare quei valori e a quelle ipotesi, che a molti oggi forse sembrano venire da un’altra epoca: un po’ più di potere diffuso, una maggiore collegialità delle decisioni, un effettivo ascolto più attento alle richieste che vengono dal basso, potrebbero perfino far funzionare meglio le strutture complesse che reggono il mondo post-tutto. Anche perché, viste idee dominanti nel presente, non abbiamo poi molto da perdere, no?