Al teatro Filodrammatici fino a domenica 25 ATIR porta in scena un testo di valore, che affascinando riesce a essere scientifico e civile, restituendo senza retorica la disturbante vicinanza tra l’odio dei fascismi europei e quello dei loro contemporanei.
La discriminazione uccide. Può farlo in molti modi, a differenti ritmi, con mani diverse. E sarebbe banale ribadirlo se Gabriele Scotti, drammaturgo di Arrusi, al Teatro Filodrammatici fino al 25 maggio, non avesse colpito anche chi credeva di saperlo bene, costruendo un meccanismo esatto che tiene insieme l’Italia fascista, la Spagna franchista e l’oggi, che scolorano una nell’altra con una eloquente compattezza che trascende l’abilità degli interpreti per rendere evidente un filo nero che – senza bisogno di far sottendere una tesi – dice molto dei tempi interessanti che stiamo vivendo. Sono, non solo scenicamente, sfumature degli stessi corpi, Francesco l’arruso di Catania, arrestato fuori da una festa perchè la sua stessa esistenza mette in crisi la purezza della razza, Martin e sua madre Amparo, ingenua sostenitrice del caudillo Franco che denuncia alla polizia il figlio come “violeta”, “mariposa”, spedendolo senza saperlo in centri rieducativi che non sono altro che carceri brutali, ed Aurelia e Eva, che vogliono allargare la famiglia mentre il governo decide di cancellare con un tratto di penna l’esistenza di una delle madri dalla vita di un figlio che sta già crescendo (il fatto che lo spettacolo vada in scena proprio nelle ore in cui, inaspettata, la Corte Costituzionale decide che nessuna madre di una famiglia arcobaleno dovrà più adottare il proprio figlio, allevia un po’ il senso di angoscia).
Sono le strutture che la società ritiene immutabili a poter essere messe in crisi sulla scena, a cominciare da quella famiglia che Carmelo Bene voleva “distruggere” nella sua natura costringente come una galera e che oggi si sta rivelando plurale già nella realtà, più capace di adattarsi ai tempi di chi la descrive. E che si articola e muta forma intorno tavoli che si compongono come pezzi di vita, e che diventano essenziali supporti scenici dopo che un piccolo incidente, che costringe una delle interpreti alle stampelle, ha reso lo spettacolo pienamente inclusivo suo malgrado, anche grazie all’accurata regia di Omar Nedjari. si intrecciano esistenze che riescono bene nel diffiicile compito di tenere insieme una ulteriore tripartizione: Arrusi ha, infatti, un’anima scientifica, utile a mettere ordine nelle incertezze che ancora alcune narrazioni alimentano sulle persone omosessuali. Ma è anche un esercizio di memoria, utile a richiamare pagine rimosse del passato italiano e di quello prossimo non solo geograficamente, senza rinunciare a metterci di fronte a tutti i pericoli dell’ignoranza, non solo quella in malafede. Lo si legge, anche, come un gesto di impegno civile, netto e rigoroso, reso ancora più netto dall’umanità che personaggi ben architettati e poi incarnati riescono a esprimere in tutta la loro tridimensionalità.
In scena, come nel mondo, ci sono persone, che rivendicano il proprio statuto di realtà, e il proprio ruolo politico, condiviso con lo spettacolo, semplicemente vivendo, Ma è, prima di tutto, uno spettacolo intensamente poetico, in cui la temperatura emotiva si alza progressivamente di pari passo con il coinvolgimento che sa generare. Merito, soprattutto, di tre interpreti di assoluto livello, convincenti e mai fuori misura. La maturità recitativa di Sandra Zoccolan si amalgama bene con la completezza interpretativa di un Simone Tudda, “giovane promessa che sta già ampiamente mantenendo, e con l’intensità di Marika Pensa, cui va reso merito non solo di aver restituito con partecipazione e solidità alcuni dei passaggi più sentiti per l’oggi, ma anche di aver brillantemente superato la sfida di un corpo scenico parzialmente limitato. Sembra poco, ma non lo è, così come non è certo semplice rimontare in funzione di questo uno spettacolo pronto all’andata in scena. Un evento che, tuttavia, ha messo ancora più in evidenza la qualità di un denso lavoro sulla parola, lirico e preciso al tempo stesso.
Un lavoro di qualità, spinto non solo dall’urgenza ma che ben restituisce le possibilità del teatro di far diventare un progetto innanzitutto ben fatto uno strumento di azione sulla realtà, non fosse altro in consapevolezza. Perchè quei volti, consegnati dal confino delle Tremiti alla guerra o dalle carceri all’oblio, esigono di non restare soltanto racconto. E soprattutto, lo pretendono i volti di tutti i figli che non devono più avere paura.