Guardare negli occhi il presente attraverso il pensiero di un autore amato, interrogarsi sulla ferocia contemporanea, ragionare sui grandi di un passato più attuale che mai. E poi, ancora: confessarsi fragilità e desideri. Cercare il bandolo per cambiare il verso a questa nostra età di risentimenti. Tutto è possibile, nella lettera che Antonio Moresco scrive a Giacomo Leopardi: pegno e manifesto di amore immenso, ma anche strumento per leggere ciò che ci accade intorno come ennesima edizione di quanto è già accaduto – solo, forse, più spaventevole. Pubblicato da Solferino, un libro che riflette e immagina, trasforma Giacomo in rondine, si spinge in bagni presidenziali, provoca, sorride, si compromette con il fervore, non rinuncia al sogno.
Sarà il caso di cominciare dalla fine, per venire a capo dell’ultimo, nuovo lavoro di Antonio Moresco, scrittore immaginifico e fuori margine, camminante e inquieto. Perché l’ultima riga della Lettera d’amore a Giacomo Leopardi, pubblicata da Solferino, tiene insieme il cuore (e la vertigine) di questo libro:
Cosa aspettate a levarvi in volo anche voi?
chiede l’autore ai lettori e alle lettrici, con tutta la forza e la provocazione della sua capacità lirica. Poiché questo, per sua espressa dichiarazione, non è un libro scritto con la postura di un critico letterario, ma concepito come una vera e propria lettera d’amore, e risponde dalla prima all’ultima pagina a una urgenza di capovolgimento: sovvertire la forza di gravità che governa il nostro presente, schiacciando animi e sguardi verso terra. Scrive, infatti, Moresco:
“In questa epoca, in cui si collocano le diverse attitudini, inclinazioni e forze in diverse e ben catalogate gabbie, si assegna alla letteratura il solo compito di intrattenere gli umani in attesa della loro morte, (…) non di portare perturbamento, pensiero, non di aprire voragini, non di stare nell’occhio immobile del ciclone”
Per sradicare il peso occulto di questo nostro tempo, ben nascosto dietro sorrisi social e assoluta mancanza di noia (e di felicità), occorre insomma rivolgersi a qualcuno che è stato capace di essere una insurrezione vivente, un ribelle omeopatico, un ponte levatoio: qualcuno che ha infilato nella sua penna versi in grado di covare e resistere al risentimento, all’abbandono e alla dimenticanza, per continuare a parlare al presente sfondandone la dimensione temporale.
Tale è il Leopardi incontrato, nella sua giovinezza, da Moresco stesso, che considera L’infinito il testo che lo ha sbloccato, che gli ha rivelato la fessura, il varco da attraversare per trovare un modo di stare in questo mondo.
“Si ama Leopardi per la ricchezza del suo pensiero, – afferma lo scrittore – perché è persona stigmatizzata che porta il dramma su di sé, perché è un poeta effusivo al massimo grado: ti tira via il tappeto da sotto i piedi. È, insomma, il fratello che ti dice la verità. Ma è anche qualcuno che ci insegna come si fa a fuggire”.

È allora un’anima esorbitante quella che prende corpo nel pensiero di Antonio Moresco, che nella prima parte della sua Lettera ordisce l’evocazione del poeta, convocandolo attraverso una serrata e intima riflessione: come era accaduto in La Vita Nova di Dante (pubblicato da Il Saggiatore, che fa da sponda a questo libro e ne è quasi il preludio) ancora una volta è la vitalità, non solo l’attualità, quello che scaturisce dalle sue pagine. Dante come Leopardi (che non a caso compaiono più volte appaiati) sono sì scrittori, sono sì menti enormi, ma sono anche corpi veri, giovani, combattenti: che voce avrà avuto, Giacomo? come sarà stato ascoltarlo pronunciare le sue parole scritte? Che luce, dentro i suoi occhi?
Se lo Zibaldone viene definito come il più grande libro di pensiero mai scritto in Italia, paradigmatico è il destino suo e del suo autore: scomodo perché insurrezionale, ridicolizzato dalla consorteria letteraria capeggiata da Niccolò Tommaseo, abnorme perché capace di disperarsi per il mondo – e, dunque, diametralmente opposto al disincanto, autentica, sagace e contemporaneissima (ahinoi) tomba dell’humanitas.
Poiché i grandi autori vivono fuori dalle epoche, attraversandole con le loro opere, e sanno parlare a ciascuno di noi e a tutti, quello che emerge in questo libro è il disvelamento della riflessione che Moresco conduce su Leopardi con Leopardi stesso. È, questo, un ragionamento che si dirige al cuore della lacerazione in cui stiamo vivendo oggi, ma che scaturisce dalla stessa, precisa domanda su cui verte il fulcro della riflessione leopardiana delle Operette morali: perché il Male? Perché la sua ricorsività?
Si interroga Moresco:
“Perché gli stessi fantasmi e demoni, sotto parvenze sempre diverse, hanno ricominciato a bollire nelle viscere del nostro continente e del mondo? (…) Perché la democrazia arriva sempre al punto di suicidare se stessa?”
Predittiva, come quella di un veggente, la parola di Leopardi risponde dai suoi scritti a quelle che sono le domande civili, morali, vitali sollevate dallo scrittore su questa nostra presente età del risentimento:
“L’anima de’ partiti è l’odio. Religione, partiti politici, scolastici, letterari, patriottismo, ordini, tutto cade, tutto langue, manca di attività, e di amore e cura di se stesso, tutto alla fine si scioglie e distrugge, o non sopravvive se non di nome, quando non è animato dall’odio, o quando questo per qualunque ragione l’abbandona. La mancanza di nemici distrugge i partiti, e per partiti intendo pur le nazioni ec. ec.”
Cosa salva, in un tempo in cui tutto implode? Nemmeno una rivoluzione, scrive Moresco: piuttosto, una metamorfosi, un deragliamento non privo di follia e di leggerezza. E poiché questo si propone di essere il libro di un sovversivo su un sovversivo, a evocazione avvenuta Giacomo Leopardi entra di persona nella seconda parte di questa Lettera: denudate le faglie sopra le quali camminano le nostre esistenze, più e meno consapevoli della gravità del momento, tutto si ribalta.
Dall’alto, dalla prospettiva di due rondini, Moresco e Leopardi imparano l’arte del volo e dell’attraversamento: Recanati e Roma, Kafka e Taylor Swift, Giordano Bruno e la plastica, eziandio e infradito, de Tocqueville e l’eterno ritorno della tirannide… Tutto scorre veloce e pieno di dismisure: la fiaba finisce nell’allucinazione, il grottesco sconfina nell’illusorio, il parlar sottile prende a braccetto l’imprecazione. Più la terra è pesante, sembra dire Moresco, maggiore è la necessità di librarsi verso l’alto (verso l’altro) per non perdersi dentro paure minuscole e accessorie, mentre il vero spavento è l’enorme, micidiale, spropositato potere in mano a ingegni minimi o deviati.
È il colpo d’ala – letteralmente – del finale. Che, leopardianamente, indica ancora, indica sempre, per travalicare il Male di questo e di ogni tempo, la via de La Ginestra, in versione rondinina: quello che nel poemetto era piccolo fiore solidale, qui diventa fusione di cervelli alati che stanno sognando insieme il sogno del volo.
In copertina Antonio Moresco presenta per la prima volta Lettera d’amore a Giacomo Leopardi da Spazio Cadore 33, Milano.
(ph Alberto Bogo )