Aminta: educazione sentimentale

In Teatro

PH © BRUNELLA GIOLIVO

È arrivato il momento di ripassare l’Aminta di Tasso, rigorosamente nella versione di Antonio Latella al Teatro della Triennale fino a domenica 20 gennaio

Nel suo ultimo lavoro Antonio Latella ci rispedisce tutti a scuola a ripassare il Tasso e il suo Aminta – al Teatro della Triennale fino a domenica 20 –, favola pastorale che assume le forme di una quasi-tragedia, capolavoro di un teatro in versi del Cinquecento oggi quasi dimenticato, tranne che per la messinscena del 1994 di Ronconi al Teatro di Roma.

Aminta è come un’educazione sentimentale ambientata tra ninfe e satiri, con risvolto tragico quando il protagonista si butta da una rupe credendo morta la sua amata Silvia che, «ritrosetta», di lui non ne vuole proprio sapere. Ma poi tutto si risolve, Aminta cade su un cespuglio e si salva, Silvia è viva e vegeta e, a sorpresa, si scopre innamorata del suo povero pretendente.

Insomma, trionfo dell’amore e Bildungsroman del pastorello, con un lieto fine talmente improbabile che non ci crede nessuno, primo fra tutti Latella, che chiude il dramma con Michelangelo Dalisi che tiene in mano una matita consumata, temperata dall’attore per tutta l’ultima parte dello spettacolo: è lo «strale aurato» di Amor fuggitivo di cui parla Venere nell’Epilogo dell’opera, pagina di solito esclusa, come a dire che l’amore si logora, che la vita stessa si logora, «si dilegua».

Perché quel che ci spetta, in questa vita, è solo «breve luce» del sole. Ecco quindi un faro isolato che illumina la scena procedendo su un binario intorno ai quattro attori, in un moto di rivoluzione lento e inesorabile.

Se la prima parte è incentrata sul verso del Tasso, ipnotico, ricco e polivalente, la seconda ha uno sfogo rock che libera tutta la tensione, la sensualità e la sofferenza accumulate in precedenza: all’analisi segue sempre la sintesi nel senso che, dopo la sua enunciazione, un significante deve essere riempito di significato.

Anche se non sono certo i Can il perno di questa Aminta, né tantomeno PJ Harvey, perché lo spettacolo affascina proprio per il nudo lavoro sul verso: forse per questo funziona meglio la prima parte della seconda, anche perché un po’ si paga l’intervallo che interrompe l’immersione poetica.

Immersione data da una regia che è esile solo in apparenza: teatro ridotto ai minimi termini per far emergere quella che il regista chiama «verticalità» della parola, del verso, che può essere dubbio o dichiarazione, sfogo o confidenza, e che arriva al pubblico con tutte le sfumature di uno struggente dramma interiore.

Soprattutto grazie alla complessità, alla densità della prova degli attori. Oltre a Michelangelo Dalisi, tre «star» di Santa Estasi: Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna, tutti talmente bravi che chiunque tema di non essere adatto al teatro in versi sappia che invece non ci si annoia mai.

Certo, cinque o dieci minuti per entrare nel linguaggio cinquecentesco del Tasso servono, poi si viene rapiti dal ritmo di questa non-azione arcadica, dalle deflagrazioni emotive di una specie di Simposio in cui ogni personaggio dice la sua verità sull’amore senza mai azzardare risposte, prima che tutto ripiombi nel buio della scena.

Immagine in copertina  ©  Brunella Giolivo

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