Amarti sarebbe stato come vivere per sempre, un canto per Pasolini e Maria Callas

In Teatro

Foto da: https://teatrofrancoparenti.it/spettacolo/prima-di-ogni-altro-amore/

“Prima di ogni altro amore” prova con raffinatezza a raccontare un amore senza definizioni, due vite indefinibili come quelle di Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, in un canto in omaggio alla loro umanità

Se di Maria Callas c’è un’icona che sovrasta le altre è quella del suo volto, modellato dalla forza del sentimento che la muove, a braccia larghe come ad accogliere l’emozione che genera, mentre canta Casta diva. A permettersi breve salto sincretico, vi si potrebbe unire l’altra immagine simbolo, quella in cui non canta: lo sguardo intenso e la posa ieratica nei veli neri di Medea. Magari mentre alle sue si intravede il reperto di quella Grecia antica che si porta nel sangue e nella voce. 

Prima di ogni altro amore in scena al Teatro Franco Parenti fino a domenica 11, inizia con il simbolo, “l’archetipo che unisce le epoche”, le scriverà Pier Paolo Pasolini. È con lui e grazie a lui, che anche sulla scena, scompare la Callas e deflagra Maria, la donna fragile e perduta, ed eroica insieme. Che si aggrappa alla voce dell’amico Paolo come all’unica salvezza possibile, in un dialogo inevitabilmente fuori sincrono come non avrebbe potuto che   essere un amore non per questo meno appassionato e intimo. Così il filo del telefono che li unisce, invariabilmente lontani, diventa il cappio di un’assenza. Reciproca, e poi di una pace. L’amore è, per entrambi, una ferita.

Nel caso di Maria tutt’al più, è tardivo, come quello per Meneghini, Pigmallone e opportunità troppo ghiotta per dimenticarsi di sé per non essere colta. Capirà solo molto tardi di averlo amato,     uomo troppo buono per non finire ad aver bisogno di possederla come il proprio capolavoro. Oppure è crudele, come Onassis, che vuole solo il guscio vuoto della diva da esporre come l’ennesima curiosità della wunderkamemer del suo yacht, con gli sgabelli del bar rivestiti di prepuzio di balena.

Ma – e forse questo è l’aspetto sorprendente perché meno raccontato – è così anche per PPP. Non è un dilemma interiore o peggio ancora religioso, il suo, che al contrario trova le parole che forse in vita non ha avuto per rivendicarsi, quanto piuttosto la più universale delle ferite, l’abbandono dell’amore a cui è mancato il medesimo coraggio.

Proprio l’amore, però, malgrado tutto, resta il motore e il principio primo della vita, e della creatività. E se non può essere realizzazione, allora che siano immagini, poesia per le masse, o canto, quello dentro cui chiunque si ritrova perché nell’istante tra il silenzio e il suono riconosce la vita, senza filtri, di chi le dà corpo. E «l’aria che hai respirato si fa teatro». Maria canta per amore, per scontare il tradimento dell’amore di chi l’ha messa al mondo. Ma anche il cinema di Pier Paolo è, in fondo, un gesto d’amore.

 Sergio Casesi dà vita a un testo di grande raffinatezza stilistica, che si fa punteggiare dalle voce di Pasolini e della Callas senza ricalcarli ma potrebbe venire serenamente dalle carte del poeta friulano, quelle con cui combatte, a tratti rifiuta, a tratti apre in buchi della serratura per vedere il mondo oltre e attraverso. Un omaggio per niente retorico all’arte – «Cosa posso dirti che non sia già nella Traviata? Vorrei scriverti la mia voce, ma io non ne sono capace, tu sì» – ma soprattutto agli esseri umani che in quanto tali sanno trasformarla in qualcosa che sopravvive al tempo; soprattutto attraverso il contatto profondo coi propri vuoti, che se sono condivisi imprigionano ma legano a vicenda, indissolubilmente. In qualcosa che è più di un amore, che sovrasta e annichilisce qualsiasi altro sentimento.

«Mi sarei innamorato di te, ma non posso». Ma proprio mentre riconosce il suo limite, questo amore soffertissimo, si riconosce come “sintonia d’astri”, e sa diventare generativo. Anche il cinema di Pier Paolo è, in fondo, un gesto d’amore. Non certo per un padre fascista che ha ucciso l’utopia, nel corpo del giovanissimo partigiano Anteo Zamboni, né per Ninetto Davoli, ma forse per un’idea di mondo ancora possibile. L’unico amore possibile per due così è quello che flirta con la morte, che le si sovrappone, come Medea, è quello della figura che “si fa carico del peso del mondo per redimerlo”. Una dea, o un mito, o forse, a ben guardare, una madre.

È una madre a chiudere finalmente lo strappo della distanza, disegnando una pietà straziata e molto concreta, quella che Medea diventa per Giasone, Maria per Paolo. Quando i colpi dei martelli della macchina da scrivere diventano quelli dell’orrore che fanno irrompere la morte sulla scena, e ad uccidere sono le parole, Così il teatro regala a Pasolini il lutto che non ha avuto, del suo corpo martoriato fa il simulacro di un eroe omerico, nella notte di Ostia che pure tanto amava.

E offre a Maria, se non l’amore, quella mano affettuosa che la cinge per lasciarla volare, dove solo la sua voce poteva arrivare. Sono diverse le felici intuizioni di questo tipo nella regia di Alberto Oliva, nate nel lavoro sul testo insieme ai convincenti attori, Stefano Tosoni e Gea Rambelli, anche cantante lirica, cui basta poco (un gesto, un paio di occhiali da sole, una voce che fa capolino dove l’altra si spegne, per scivolare dentro Paolo e Maria, senza bisogno di ricercare la mimesi ma segnando una continuità. Se l’unico modo di morire – e di vincere la morre – è continuare a vivere, a cento anni dalla loro nascita Pasolini e la Callas, Paolo e Maria, non sono mai stati più vivi di così.

Foto da: https://teatrofrancoparenti.it/spettacolo/prima-di-ogni-altro-amore/

(Visited 1 times, 1 visits today)