Essere adolescenti in un mondo in piena catastrofe, invaso da un virus che trasforma gli umani in polvere di marmo, e dove una goccia di sangue infetto ti condanna a una morte atroce. Un body horror per la regista parigina, che usa la cinepresa come un bisturi, una lente d’ingrandimento che ci mostra anche ciò che non vorremmo. Il cortocircuito spaziotemporale ha il fascino della luce che abbacina e acceca, del buio che diventa visione, incubo. Strepitosi i tre interpreti: Mélissa Boros adolescente ferita, Golshifteh Farahani madre dolente che accudisce e ama, Tahar Rahim fascinoso e manipolatore
Essere adolescenti in un mondo sull’orlo della catastrofe, invaso da un virus misterioso che uccide gli esseri umani trasformandoli in statue di marmo, rendendoli incapaci di respirare e infine riducendoli in polvere. Un universo dominato dal terrore, dove basta una goccia di sangue infetto per condannarti a una morte inspiegabile e atroce. Questa è la realtà in cui si muove Alpha (Mélissa Boros), tredicenne avventurosa e ribelle, tentata dalla trasgressione ma in fondo fragilissima, bisognosa di amore e carezze ma anche di brividi e imprevisti, soprattutto di un’idea di futuro. Tra una madre single (Golshifteh Farahani) ansiosa e intrepida (fa il medico, proprio in una clinica che accoglie i malati terminali) e uno zio tossico (Tahar Rahim) votato all’autodistruzione, ma tanto fascinoso e manipolatore, Alpha sperimenta la paura e cerca di imparare la difficile e temeraria arte di rimanere vivi, almeno abbastanza da diventare adulti e provare l’ebrezza confusa di scoprirsi sopravvissuti.
Questo è l’universo che ha immaginato la regista parigina 41enne Julia Ducournau, al suo terzo film dopo quel Titane che aveva agguantato a sorpresa la Palma d’oro nel 2021 scatenando polemiche feroci. Alpha è passato all’ultimo festival di Cannes senza raccogliere premi e ha suscitato meno polemiche, ma Ducournau non ha cambiato idea: fare cinema vuol dire dare corpo alle ossessioni e far esplodere lo schermo, esplorare la carne viva e perché no? provare a immaginare la fiammeggiante voragine dell’apocalisse. Cinema non per tutti, quindi, quello di Ducournau, body horror – se proprio vogliamo appiccicargli un’etichetta – che usa la macchina da presa come un bisturi, un ago, una mannaia, una lente d’ingrandimento che ci fa vedere anche quello che non vorremmo.
Per quanto mi riguarda, se devo trovare un difetto a questo film perturbante, visionario e coraggioso, è l’ostinazione di voler intrecciare – dall’inizio alla fine del film – due diverse linee temporali, rappresentate da Alpha a cinque anni e Alpha a tredici. L’accavallarsi delle diverse epoche, spesso all’interno di un’unica scena, crea una faticosa sovrapposizione, a tratti difficile da decifrare per lo spettatore, e forse non così indispensabile alla costruzione della storia. Anche se bisogna ammettere che il cortocircuito spaziotemporale messo in scena da Ducournau ha il fascino della luce che abbacina e acceca, del buio che diventa visione, sogno, incubo.
Un film che respinge e al tempo stesso seduce, respira al ritmo imperfetto della vita e folgora lo sguardo. Grazie anche a tre strepitosi interpreti: Mélissa Boros, adolescente rabbiosa e ferita; Golshifteh Farahani nel ruolo di madre dolente che accudisce e ama, nonostante tutto; Tahar Rahim, bello e dannato, eroinomane perduto eppure ancora e sempre capace di vibrare di amore, desiderio, vita. Nonostante quelle ossa che appuntite sporgono come a voler bucare la carne. E forse anche lo schermo. Per arrivare fino a noi. E non lasciarci scampo.
Alpha, di Julia Ducournau, con Mélissa Boros, Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Emma Mackey, Finnegan Oldfield