Alberto Arbasino, grazie per le magnifiche prose

In Arte

Un ricordo di Alberto Arbasino, scomparso domenica 22 marzo

Con la morte di Alberto Arbasino, avvenuta a Milano nel pomeriggio di domenica, quando era solito essere ad una matinèe teatrale, se ne va un largo pezzo della storia dello spettacolo. Perché il 90enne scrittore di Voghera, da tempo lontano dal mondo, famiglia borghese con farmacia, dopo studi di legge si era votato al divertimento culturale, mescolando aggettivi e sostantivi. Viaggiava e andava per mostre, teatri, concerti, per cinema, ovunque ci fosse un dibattito, a partire dallo storico Gruppo 63 di cui fu tra i fondatori, scrivendo su “Illustrazione italiana”, sul “Mondo” di Pannunzio, su “Officina”.

Leggeva, divorava libri e poi ne scriveva con una competenza che si è andata affinando e una cultura così ricca e cosmopolita quando viaggiare non era così consueto, specie andare in America dove si inerpicava a New York in ogni teatrino off, in ogni sala di concerto, ad ogni mostra non solo al Metropolitan ma anche al Whitney, alla Frick Collection. Tanto che era difficile a volte entrare ed apprezzare a fondo la sua infinita rete di rimandi, la ragnatela globale di citazioni, segni di cotte culturali prese in Italia e all’estero, una lista infinita da Ronald Firbank all’adorato Gadda, di cui si considerava un nipotino e su cui scrisse un delizioso pamphlet, “L’ingegnere in blu” edito da Adelphi, suo editore di riferimento dopo la Feltrinelli della amatissima Inge.

I titoli dei suoi libri e dei suoi articoli sono nel carnet della memoria, dai primi “La narcisata”, “Gita a Chiasso” a “Le piccole vacanze” all’“Anonimo lombardo” a “Fratelli d’Italia” (che nella nuova edizione Adelphi ’93 si ampliò fino alle 1400 pagine) fino a “Grazie per le magnifiche rose”, il politico “Un paese senza” (militò per un periodo fra i repubblicani): dotato di sense of humour e di cinica ironia, punto di riferimento omosessuale ma sempre in giacca e cravatta, mai neppure un pensiero al “pride”, Arbasino rese vivo lo spettacolo italiano che seguiva ovunque per festival e paesi, apprezzando i santoni, i mattatori e le nuove leve, inneggiando e mortificando. È sua la classica formula con cui si sintetizzava una carriera: brillante promessa, solito stronzo, venerabile maestro.

La sua arma segreta era equiparare generi e nomi e se faceva una lista di cose che si vedevano a teatro a Milano negli anni ‘50 e ‘60, metteva Karajan e la Callas, Visconti e Strehler, ma subito dopo la Wanda Osiris e i Legnanesi, di cui fu uno dei primi cultori. Cosa ne penserà, ne scriverà l’Alberto? Si chiedevano i diretti interessati dopo una prima attesa.

Adorava l’opera e non mancava mai alla Scala. Sul Piccolo ebbe entusiasmi, poi ogni tanto vinse l’ironia come quando titolò il pezzo sulla “Vita di Galileo” diretta da Strehler: “Galilei e Giovannini”. Per una battuta avrebbe dato tutto. Ma la sua prosa era ricca di tappe e deviazioni culturali e di gusto, di detour che solo lui conosceva quando arrivava in luoghi sconosciuti e mandava la sua classica cartolina con la grande A. puntata.

Inventando la casalinga di Voghera, promulgò un editto contro il provincialismo e la faciloneria italiani, alzando il livello culturale ad asticelle impensabili. Frequentatore di festival e rassegne, dialogatore impenitente con la sua famosa erre moscia, amico e nemico di tutti, era il Proust dell’Italia del secondo Novecento e fu un bel frequentatore di salotti, ma tassativamente culturali, mai nel fango trash dell’odierno divismo tv da basso impero.

A volte si sporcò le mani direttamente lavorando come scrittore di copioni grotteschi (“Amate sponde”), mettendo in scena una contestatissima “Carmen” a Bologna e dirigendo con Missiroli un bel film tratto dalla “Bella di Lodi” con la Sandrelli in versione ’61. La sua produzione resta immensa (“Super Eliogabalo” cita Artaud e poi “Pensieri selvaggi”), fino alla fine, prima di incontrare il fantasma del mondo che non riconosceva più, dopo aver scritto sul “Giorno”, sul “Corriere della Sera” e sulla “Repubblica” storici reportage in cui si dimostrava non solo spettatore implacabilmente attento ma osservatore del costume, anche moralista, tanto che condusse nel ’77 su Rai2 “Match”, divertente scontro a due di cui era arbitro (Moravia e Sanguineti, Moretti e Monicelli, etc).

Le sue opere ora giacciono raccolte in due Meridiani Mondadori, ma la sua verve, il suo spirito, la sua voglia di stupire con eleganza restano esempio unico, jolly della nostra cultura, volto distinto del sapere ma comprendendo anche la sua parodia.

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