Adorabili quartetti

In Teatro

© Massimiliano Fuoco

Probabilmente, quando nel 1999 Ronald Harwood ha scritto la pièce Quartet, avrà attribuito ai suoi personaggi delle età leggermente inferiori a quelle dei quattro attori…

Probabilmente, quando nel 1999 Ronald Harwood ha scritto la pièce Quartet, avrà attribuito ai suoi personaggi delle età leggermente inferiori a quelle dei quattro attori che stanno girando l’Italia con l’omonimo spettacolo diretto con mano quasi invisibile da Patrick Rossi Gastaldi… eppure questi magnifici quattro – in barba all’anodino dato anagrafico – sono fin troppo in gamba per interpretare i cantanti osteoporotici e scorderelli che languiscono nella casa di riposo ipotizzata da Harwood.

Ciò non dovrebbe sorprendere, in un paese di baldi Arlecchini novantenni, e a ricordarmelo è intervenuto, come in un’apparizione, Ferruccio Soleri in persona, il quale, a fine spettacolo, è sgattaiolato fuori dal Teatro Carcano (dove lo spettacolo alloggerà fino al 31 marzo) staccandomi di diverse lunghezze… eppure fa sorridere vedere degli attori over-75 che talvolta si dimenticano (ma solo per un attimo) di zoppicare per finta o che saltellano come grilli laddove i loro personaggi si lagnano di avere un piede nella fossa.

Ma il surplus di vitalità del quartetto composto da Erika Blanc, Giuseppe Pambieri, Cochi Ponzoni e Paola Quattrini non va certo criticato, bensì applaudito col debito vigore. Gli assoli migliori, che riuniscono comicità e tenerezza, li ha Paola Quattrini che – sfoggiando un timbro nel più perfetto stile Nata ieri – è ottima nei panni di Cecilia Fontana, una sorta di Marilyn Monroe canterina invecchiata, sopravvissuta ai propri eccessi (soprattutto erotici) ed intenta ad espiare – in una perenne Quaresima – con un’accettazione incondizionata delle bizze del prossimo e delle umiliazioni della terza età.

Ma quando viene rapita alla realtà – come le capita sempre più frequentemente – dalle insidie della demenza senile, viene però provvidenzialmente restituita al presente dall’odore del maschio selvatico.

In un microcosmo in cui l’arte, l’amore e soprattutto l’erotismo (anche se più sognato che vissuto, per forza di cose) sono gli ultimi appigli per rimanere ancorati alla vita, brilla anche Titta, il personaggio affidato al fanciullesco Cochi Ponzoni, che – dietro modi grossolani e chiacchiericci da vecchio porco – cela la mitezza e la fragilità di un vedovo inconsolabile.

Funziona bene, in questo senso, la sua interazione con l’apollineo Rudy di Giuseppe Pambieri (bravo in un ruolo forse un po’ meno gratificante), il quale si dà un’aria da filosofo tutto-spirito-niente-corpo che però ha reazioni inconsulte quando vede un barattolo di cotognata.

Completa la formazione – nei panni della soprano inasprita e amareggiata Giulia Caffarelli – Erika Blanc, la quale supplisce a una dizione non sempre cristallina con una mimica facciale che si può ammirare da qualsiasi punto della platea.

La trama è presto detta: in spregio al fatto che gli anni abbiano reso tenorile il timbro della contralto, baritonale il timbro del tenore, basso il timbro del baritono… e inesistente il timbro della soprano, i magnifici quattro di cui sopra vengono cooptati dal comitato della casa di riposo per ricostituire il loro glorioso quartetto del tempo che fu.

Tra perplessità, cedimenti delle anche e vecchi dissapori, i quattro riescono a raggiungere un compromesso tra la volontà di tornare in azione e il timore di guastare il ricordo dei loro fulgidi, antichissimi talenti.

Il primo atto scorre via piacevolmente, con le risate che arrivano con la puntualità dei mezzi pubblici in Giappone… ma forse è proprio questa regolarità implacabile che dà un’impressione di meccanicità, cui segue – nell’intervallo – la speranza di un secondo atto più emotivo e catartico, visto che il primo ha lasciato molti nodi in attesa di venire al pettine.

Ed effettivamente i nodi si sciolgono a tempo record, ma senza particolare violenza, i piccoli colpi di scena corrono via quasi con impazienza – per capire la ragione bisognerebbe confrontare il testo originale di Harwood con l’adattamento di Antonia Brancati – e i momenti di pathos sfiorano lo spettatore in modo incruento (nella versione cinematografica diretta da Dustin Hoffman, al regista bastava “banalmente” il dettaglio di un paio di mani rugose che si toccavano per portarsi a casa qualche lacrima).

Ciò non pregiudica la simpatia di uno spettacolo che – grazie ai suoi scatenati interpreti – ci ricorda che, sulle tavole del palcoscenico, il concetto di “terza età” è assolutamente relativo.