Accompagnare alla vita, con la grazia di una sinfonia

In Teatro

Al Teatro Franco Parenti fino al 18 maggio, con Lezione d’amore, sinfonia di un incontro Andrèe Shammah – per la prima volta autrice – traccia, con tre interpreti perfetti , la parabola della scoperta della vita. Nell’incontro tra un giovane affacciato sull’abisso del mondo e una maestra di pianoforte ed esistenza che attraversandolo, ha scelto la bellezza.

Quando si è ragazzi, si crede che diventare adulti significhi smettere di avere paura; di sentirsi inadeguati ad esistere, di cercare risposte che paiono impossibili. Forse significa, invece, trovarle nello smettere di pretenderle, e trasmettere le possibilità di scoprirle. Salvarsi nell’esercizio dell’incontro. È forse questa la Lezione d’amore che emerge dallo spettacolo firmato da Andrée Ruth Shammah anche in veste di autrice, insieme a Federica Di Rosa. Nell’incontro tra un giovane incatenato dalla paura di vivere e una Maestra, che nella musica mostra il mondo, e cerca la persona a cui consegnare, come un’eredità, la grazia nell’attraversare l’esistenza e il suo dolore.
 E per farlo ha bisogno di allenare alla dedizione, di sfiorare mani che devono diventare “devote, caritatevoli”, abbastanza da toccare la rugiada senza farla cadere. Solo così, i tasti del pianoforte daranno vita a una musica che sgorgherà, sorgiva, più ancora dal pensiero e dall’attitudine che dalle dita. C’è bisogno, tuttavia, della disposizione all’affidamento e alla meraviglia che solo si genera dall’incontro, il primo, che cambia le prospettive dell’esistere. E può chiamarsi amore a patto che lo si spogli dalla fame di averne qualcosa in cambio, che lo si riconosca nel suo potere di rivoluzione e svelamento di sè.

Una capacità che, forse, si svela soltanto nello sguardo all’indietro, nella disponibilità dell’adulto di consegnare, a sua volta Maestro di allievi moltiplicati, la memoria di tutte le fragilità che ancora ne segnano i passi. Se ne incarica, qui, un cristallino Andrea Soffiantini, capace di scovare dentro di sé tutto ciò che, spezzandone la voce, la fa vera. È lui ad aprire il sipario sul momento decisivo della vita in cui, mentre il mondo si fa diario, e le pareti calde di una mansarda parigina diventano nido di uccellini pronti a spiccare il volo solo a patto di incontrare chi, come Madame A., lo sappia accompagnare: non insegnando ma e-ducando, facendo emergere una libertà – e un’intimità – scovata nei silenzi, nei gesti, mai nelle massime o nelle imposizioni. L’apprendistato alla vita non è una teoria di lezioni, nemmeno sul pianoforte. Non è una tecnica né un’architettura intellettuale: ha, piuttosto, la grazia dei movimenti di una sinfonia, la forza di una musica che sgorga dall’urgenza intima e non dall’esercizio. E – anche – l’eleganza di una danza con la morte – sfiorata o cercata per sentire la vertigine della vita, o a cui andare incontro con la leggerezza di chi l’ha riempita di esistenza.

Un corpo a corpo che, come il vivere, si apprende poco alla volta, per slanci e risacche, titubanze e rese ai moti dell’animo. Così si entra dentro questo lavoro, e così ci entrano i suoi interpreti, che nel conoscersi si accordano tra loro e con un testo di commuovente intensità, in cui la bellezza dello scoprirsi – per sguardi, tocchi e confidenze – diventa la grammatica della crescita come solo i maestri la sanno suscitare. Perché un soffio così sottile s’incarni in tutta la sua sincerità, ci vuole la grazia lieve di una Milena Vukotic impeccabile, capace di far sua alla perfezione la leggerezza che possiede solo la sapienza di chi ha attraversato il dolore e il buio (anche quello della storia, evocato, meritoriamente, con una chiarezza non ridondante) e proprio per questo sa trasformarlo in humus generativo di possibilità di futuro, non di angoscia. E ci vuole la timidezza di un giovane in scoperta, che Federico di Giacomo controlla con strabiliante naturalezza, a suggerire il sottile confine tra un talento attoriale già evidente e – probabilmente – una certa aderenza a un’intima verità difficile da “recitare” soltanto. 

Così, mentre scorre, cadenzato da un numero di incontri che sembrano più movimenti di una partitura che appuntamenti di calendario, il loro reciproco darsi forma, lo spettatore trova sulla scena la dolcezza di una memoria di cui ciascuno custodisce la propria declinazione: il momento in cui abbiamo scoperto la vita, sfidando il mondo – soprattutto quello, come le madri borghesi, che conosce solo le proprie strette letture – a vedere tutta la straordinarietà della nostra scoperta, quando passa dai suoni e dai silenzi che li compongono, dalla poesia, ma anche dai corpi. Custodita, magari, dagli occhi profondi di un gatto – o da quello che ci piace immaginare che lo sia, perché quel che è finto sulla scena è uno strumento per dire, invece, le verità più autentiche e indicibili.

In questo lavoro, la traccia di Harold e Maude è evidente e dichiarata, ma gli si farebbe un torto a limitarsi a ricercare parentele. È un cammino sul filo della vita che sembra voler affidare un impegno al futuro: il compito più profondo dei maestri, disposti a mostrare strade, e quello degli allievi, chiamati a trovare i muscoli per percorrere le proprie. Di questo la regia si mette a servizio con la stessa grazia ed esattezza che innerva tutta la pièce, perché ogni dettaglio sia funzionale a mostrare nei non detti il senso di cui sono densi: il suono dell’empatia: intesa non soltanto come fare proprio il sentire dell’altro, ma attraversarlo insieme in un reciproco accordarsi.
Un lavoro raffinatissimo e poetico, proiettato a un futuro da cui lasciarsi prendere per mano, anche quando questo significa lasciar andare: un esercizio per cui, tuttavia, occorre aver trovato la lingua. E la sensibilità per farsene strumento.

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