Wajib, invito al matrimonio e all’impegno sociale della regista Jacir e dei Bacri, attori palestinesi

In Cinema

Nelle strade di Nazareth, sporca e caotica ma anche colorata e piena di vita, vanno in scena tradizioni e conflitti, sullo sfondo di una libertà che resta sempre lontana e negata. Padre e figlio litigano cercando di rintracciare parenti a amici, futuri ospiti del matrimonio della figlia (e sorella): uno è rimasto e si arrangia con chi comanda, l’altro è in Europa e sogna un rivolta, che più non lo riguarda

Wajib – Invito al matrimonio, passato in anteprima al Festival di Locarno 2017, è l’ultimo film diretto dalla regista Annemarie Jacir (Il sale di questo mare, Quando ti ho visto), ed è stato selezionato per rappresentare la Palestina agli Oscar 2018 per il “miglior film in lingua straniera”. Nata a Betlemme agli inizi degli anni ’70 ma cresciuta negli Stati Uniti, Jacir è stata la prima donna del suo paese a girare un lungometraggio, ma a causa del film le è stato impedito dalle autorità israeliane di stabilirsi definitivamente nella sua patria d’origine. Dopo un periodo di vero esilio in Giordania, definito tale dalla stessa regista, è però poi riuscita a tornare, recentemente, nella sua terra, che è poi la vera protagonista di Wajib, in particolare la città di Nazareth dove la vicenda ha luogo, con le sue contraddizioni e ambivalenze ormai diventate assolute, quasi dogmatiche per i suoi abitanti.

Portavoce di questa panoramica socio-culturale è la coppia padre-figlio, coppia anche nella realtà, protagonista della storia. Wajib in arabo significa obbligo, incarico, e in particolare designa uno specifico dovere, quello che hanno un padre e un figlio di consegnare a mano e personalmente gli inviti al matrimonio della figlia e sorella, secondo la tradizione palestinese. Abu Shadi (Mohammed Bakri), Senior in occidente, e Shadi (Saleh Bakri), figlio primogenito, sono dunque i messaggeri di questo lieto evento, e sarà l’occasione di trascorrere, dopo un lungo periodo di separazione, un po’ di tempo insieme, che farà però affiorare soprattutto le differenze tra i due. Il vecchio patriarca è un insegnante divorziato, in procinto di vivere il terzo abbandono col matrimonio della figlia, dopo quello di molti anni prima dalla moglie e la separazione dal figlio, residente da tempo in Italia dove svolge la sua professione di architetto. Shadi, che è tornato in patria per onorare la tradizione del wajib, si impegna in un vero viaggio on the road insieme al padre, che non perde occasione di vantarsi di una sua fasulla carriera di medico in Occidente e intanto cerca di convincerlo a tornare a vivere a Nazareth.

In questo travagliato percorso, i due uomini riscopriranno con amarezza di avere due visioni opposte del loro paese: da una parte un uomo oltre la sessantina, piegato da un’occupazione territoriale che l’ha obbligato a rassegnarsi ai giochi di potere con cui deve venire a patti per sopravvivere, anche professionalmente, dall’altra il trentenne ribelle animato da sentimenti di resistenza, che vive all’estero insieme a una ragazza figlia di un dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tutto il film si gioca sull’espediente del rito del wajib ma la vera protagonista resta, silenziosa sullo sfondo, la città di Nazareth, col suo traffico intenso, le sue strade colme d’immondizia e malamente costruite, che rendono difficoltosa la guida e i suoi militari sempre presenti nella quotidianità dei suoi cittadini. Ma anche coi suoi colori e le luci soffuse, le case bianche e l’odore di humus che si può quasi percepire oltre lo schermo.

La regista ci mostra tutto questo quasi come un lungo come preludio all’atto finale, la discussione che lo spettatore desidera vivere intensamente, perché è qui che il non detto emerge in un profluvio di parole, sfociando in una vera e propria battaglia generazionale. Il figlio critica il padre per non essere mai uscito dal suo paese accettando di vivere una non-vita, in cui i suoi “amici” israeliani sorvegliano le scuole, approvano i programmi, scelgono gli insegnanti e “non permettono di parlare della nostra storia”. Dice amareggiato Shadi, “non siamo liberi di pensare”, e disprezza il genitore perché è cresciuto guardandolo chiedere il permesso di esistere, di respirare, aggiungendo che “per loro resti invisibile”. Dall’altra parte del campo di dialettica battaglia c’è il vecchio baluardo, che ancora resiste che si è piegato, guardando “scappare” l’antica borghesia ormai naturalizzata europea, che nei suoi salotti parla della liberazione della Palestina: “ma dov’è questa Palestina di cui parlate? Io sto qui, vivo qui”, si arrabbia Abu Shadi, io resisto, è questa la mia esistenza. E la guerra finisce così, con la dimostrazione che il ragazzo non è ancora un uomo, e resta ancorato a un ideale effimero, ormai lontanissimo dalla vita che si è scelto, sottovalutando i sacrifici che il padre ha affrontato per il suo bene più alto, ovvero la felicità dei figli.

Wajib da intendere dunque come un impegno di relazione, ma è anche l’Impegno sociale della regista, che ha voluto trasmettere al pubblico un’amara riflessione in tutta la sua trasparenza, mostrandoci però anche un enorme amore per Nazareth e i suoi abitanti.

Wajib – Invito al matrimonio di Annemarie Jacir, con Mohammed Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreik, Tarik Kopty, Monera Shehadeh, Lama Tatour, Samia Shanan, Jalil Abu Hanna, Ossama Bawardi, Ruba Blal 

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