Sbirciando Truman (Capote): quando va in scena il soggetto

In Teatro, Weekend

Un irriverente monologo al Parenti è l’ultima tappa di una restituzione via cinema, teatro e letteratura di una biografia imponente come quella dell’autore di A sangue freddo, protagonista cinico e talentuoso della vita intellettuale americana degli anni ’60, ma è anche spia della passione per le vite celebri all’incrocio tra pubblico e privato

Va in scena il soggetto, non l’oggetto. Sempre più spesso al cinema e a teatro assistiamo alle vite celebri, anche con gossip, di scrittori, attori, pittori eccetera di cui conosciamo le opere, ma vorremmo sbirciare oltre: recenti i due bei film su Truman Capote, di cui oggi rievochiamo le gesta per un irriverente monologo di Massimo Sgorbani con Gianluca Ferrato al Teatro Parenti fino a domenica ; ma recente anche il film su Thomas Wolfe e il  suo editor, quello di Abel Ferrara su Pasolini (con cui Capote condivideva la così detta “disperata vitalità”), quello sulle cime affettive tempestose delle sorelle Brontë , e poi la vita di Murnau, le biografia di Joan Crawford  o della impagabile e stonata Florence, la stirpe maledetta di Ginsberg e soci on the road, il libro di Jan Brokken sul grande solista russo esule Youri Egorov (Nella casa del pianista ) e i mille volti di Marilyn negli infiniti film che la ritraggono e ricordano.

A proposito di miss Monroe: Capote (si dice Capoti, non cadiamo in peccato mortale dicendo la E), nello spettacolo che inizia e finisce in mutande passando per un inappuntabile smoking, dialoga proprio con la “sua” Marilyn che lo accoglie nell’al di là, “meglio di san Pietro”. E’ l’inferno, probabilmente: in Paradiso si sarebbero annoiati. Anche se il nome viene fuori solo alla fine, l’identità dell’interlocutrice risulta chiara agli intimi da subito quando lo scrittore dice che doveva interpretare Colazione da Tiffany, modellato su una ragazzaccia di facili costumi e non sull’adorabile gattara Audrey Hepburn. Per facilitare il compito della nostalgia sempre in agguato l’attore, molto bravo nel non imitare il modello ma evocarlo anche con notevole turpiloquio, si fa aiutare da Moon river di Mancini cantata da Judy Garland e da motivi storici di Nancy Sinatra e di quel Cole Porter, “maledetto finocchio”, chiamato affettuosamente in causa.

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Dandy, queer, gay, snob, esibizionista a 360 gradi, timoroso di essere sempre rimandato indietro, Capote fu al centro di un circolo di donne miliardarie dette i Cigni della V strada (tra cui c’era anche la nostra Marella Agnelli e Gloria Vanderbilt) e su cui ha scritto una precisa cronistoria Melanie Benjamin. Truman Capote fu l’Oscar Wilde della Manhattan anni ’60, lui che arrivava povero, screanzato e semi orfano dal profondo Sud dell’Alabama ma riuscì a trovare col suo ingegno (il colpo grosso fu il libro reportage A sangue freddo” e col suo cinico “understatement” (“Dicono che non dovevo fare una festa mentre si combatte in Viet, ma sono loro che non dovrebbero uccidersi mentre io invito gli amici”) un posto nell’alta società.

È stata una East side story, finita malamente (morì non dimenticato ma trascurato a soli 60 anni, zeppo di alcol e droghe, nel 1984) perché le belle signore che gli avevano fatte tutte quelle confidenze, come cortigiane in un salotto da Re Sole, e che lo avevano festeggiato allo storico party in bianco e nero di lunedì 28 novembre 1966 al Plaza, poi gli si rivoltarono contro. Fu quando Capote sconfessò le loro privacies in Preghiere esaudite. Di questo grande scrittore si continua comunque a parlare, su di lui è uscita una monumentale biografia di George Plimpton e Garzanti, il suo editore italiano, ha raschiato il fondo del barile coi racconti Dove comincia il mondo, mentre Colazione da Tiffany, anche se ora il marchio è in difficoltà, è diventato mitico come la sua Audrey e continua con le ristampe.

Nel monologo che si sofferma sul sesso orale con compiaciuto libertinaggio e mostra il volto dell’America violenta, per sempre western (due foto dei due Kennedy all’obitorio col cervello spappolato), il colloquio non è casualmente con Marilyn. L’attrice era sua cara amica, insieme andavano a ballare al Morocco, anche lei era giunta quasi orfana dal nulla: uno dei racconti più belli di Capote (Una bellissima bambina in Musica per camaleonti) la riguarda da vicino. Lo spettacolo è nella gran fatica dell’attore di raccontare il pubblico e il privato di un personaggio emblematico della società americana, facente parte della triade snob gay degli intellettuali kennedyani anni 60: Vidal-Capote-Williams, prima che dell’ondata eterosessuale di Philip Roth, Malamud e Yates.

Scrittore multiforme, capace di scrivere un bellissimo reportage sulla tournée di Porgy and Bess in Russia, Capote dovrebbe mirare alla eternità per come ha raccontato un atroce fatto di cronaca in A sangue freddo, quando entrò in confidenza e si innamorò di uno dei due spietati assassini, Perry Smith, quasi accompagnato alla sedia elettrica e con cui immagina di dialogare in uno dei momenti toccanti del monologo. Si termina con un invito a comportarsi male: la lezione che viene da Truman potrebbe essere questa, queste sono le cose che restano del suo vorticoso parlar mondano citando e schiaffeggiando qua e là: la memoria è sadica perché ti obbliga a ricordare; si ama sempre da soli; si piange di più per le preghiere esaudite che per quelle non accolte. Esercitatevi. Gli diverrete amici.