La sinfonia agrodolce dei The Verve compie vent’anni

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“Bitter Sweet Symphony”, considerata una delle miglior canzoni mai scritte, compie vent’anni il 16 giugno; cogliamo l’occasione per riascoltare “Urban Hymns”, l’album che ha trasformato i The Verve in giganti della canzone britannica

Di momenti iconici del Britpop ce ne sarebbero tanti, dai balletti di Jarvis Cocker dei Pulp a Top of the Pops, alla battaglia dei singoli tra Country House dei Blur e Roll With It degli Oasis del ‘95, apice di una rivalità fomentata dai media ma che ha messo due scuole di pensiero musicale a confronto, un indie sperimentale dalla vena artpop da una parte e un rock per la working class, spinto da una pura ambizione in stile punk, dall’altra.

Ma forse nessuno di questi riesce a catturare in pieno l’ambizione, lo swagger, e la vitalità di quella scena musicale quanto un momento che arriva, ironicamente, verso la sua fine nel ’97: quella camminata sfrontata e inarrestabile su Hoxton Street a Londra del frontman dei The Verve, Richard Ashcroft, nel video di Bitter Sweet Symphony – canzone che ha rappresentato il punto di svolta della carriera del gruppo ed è ormai un classico assoluto, spesso incluso nelle liste di migliori canzoni di sempre. La combinazione dell’iconico motivo d’archi, sample della versione della Andrew Oldham Orchestra di The Last Time dei Rolling Stones, e il senso di ascesa spirituale che la canzone trasmette, la rende un inno che celebra le persone comuni che “cercano di arrivare alla fine del mese” e che cercano nella musica stessa il potere di elevarsi oltre alle proprie paure, mancanze, e problemi. Questa settimana, Bitter Sweet Symphony compie vent’anni.

In occasione di questo anniversario, vogliamo rivisitare l’album che Bitter Sweet Symphony apre, Urban Hymns, ormai un classico della musica rock britannica degli anni ’90, che ha trasformato i The Verve in giganti e ancora oggi rappresenta uno standard aureo del cantautorato indie rock. Ciò che lo rende grandioso è l’accostamento di semplici arrangiamenti guidati dalla chitarra, testi che raffrontano domande universali, dalla morte all’amore, in modo semplice e sincero, rifiniti da un uso azzeccato e puntuale degli archi, che danno alle canzoni di Urban Hymns il sigillo di eternità.

La seconda traccia dell’album, Sonnet, è auto-ironica nel suo denunciarsi come una canzone d’amore che “non sembra un sonetto”, che parla in modo semplice il linguaggio della mancanza con pochi accordi di chitarra – finché non arrivano proprio gli archi, quasi impercettibili fino alla fine della canzone, che la elevano allo status di classica ballata quale è considerata oggi. Lo stesso si può dire per The Drugs Don’t Work, ispirata dalla morte del padre di Ashcroft, che tra la struggente sezione d’archi e la voce rotta di Ashcroft crea un enorme impatto emotivo, come se te la stesse cantando direttamente ‘nelle orecchie’, come dice nella canzone.

Pezzi come The Rolling People e Space and Time, invece, sperimentano con un rock tra lo psichedelico, il grunge e lo shoegaze, che aveva caratterizzato il lavoro precedente della band, ora reso in chiave ancora più maestosa e audace, sempre alla ricerca della rivelazione.

Non si può parlare di Urban Hymns senza parlare di Lucky Man, un altro esemplare di canzone il cui risultato finale supera la somma matematica delle parti, in un’alchimia magica di spirito e musica. La voce di Ashcroft, onesta e graffiante come sempre, dipinge un’anima vogliosa di realizzare il proprio potenziale, di usare “il fuoco” che sente “nelle sue mani”, e di trovare la propria identità nell’amore che ha “nella sua mente”. Lucky Man, come il resto del disco, mostra il talento unico di Ashcroft nel creare canzoni che, nella loro apparente semplicità, riescono ad affrontare i grandi temi dell’esistenza, e a creare una connessione indelebile con il pubblico.

 

La longevità di Urban Hymns è visibile non solo nella musica indie di oggi, da giganti come i Coldplay, fino ai Doves e agli Elbow, ma soprattutto nell’idillio che si sprigiona negli occhi di persone di tutte le età durante una qualsiasi esibizione dal vivo di Richard Ashcroft, ormai solista. Posso testimoniare personalmente, dopo averlo visto dal vivo per la prima volta lo scorso weekend, che esista poca musica al mondo capace di unire le persone più di queste canzoni, dal ritornello di Lucky Man a quegli archi di Bitter Sweet Symphony – e che Ashcroft merita di passare alla storia come uno dei più importanti cantautori inglesi degli ultimi 20 anni.