The Post: una donna guida la battaglia per la libertà

In Cinema

Il giornalismo coraggioso che sfida, nel 1971 come oggi, la Casa Bianca, e il nascente protagonismo femminile, impersonato dall’editrice-pioniera Meryl Streep, celebrata da una Hollywood progressista ansiosa di riscattarsi dal Weinstein sexygate. Tutto questo e altro in “The Post”, il nuovo, brillante film del regista di “Et”, “Lincoln” e “Il ponte delle spie”, in cui la Storia è protagonista quanto la storia di una donna mite che diventa paladina dei valori della Costituzione. Grazie all’aiuto di un direttore di giornale, Tom Hanks, che unisce lo spirito libero d’America alla voglia di diventare un numero Uno.

“Una notizia è la prima bozza della Storia”, dice Katharine Graham/Meryl Streep, coraggiosa editrice americana che sceglie nel 1971 di sfidare la Casa Bianca pubblicando gli oggi celebri Pentagon Papers. E se a quelle parole aggiungete il suo esplicito chiarimento (“Alcuni amano sempre la competizione, il cambiamento: io no e mi dispiace non potermi annoverare tra questi. Ma una volta che hai iniziato un percorso penso che devi andare fino in fondo. Non si può cedere”) avrete ben presente i due punti chiave su cui poggia The Post, il nuovo film di Steven Spielberg che esce nel pieno della bufera trumpiana contro giornali, tv e giornalisti. La classica sfida liberal a un potere enorme e bugiardo, lanciata da un manipolo di coraggiosi difensori della Costituzione e della Libertà, e i meriti dell’allora nascente protagonismo femminile, mentre oggi dilaga quell’Hollywood sexgate che ha mostrato tutta la violenza sessista e maschile dell’establishment cinematografico Made in Usa, da sempre di simpatie e idee liberal.

E c’è un altro punto interessante, che rimescola a sua volta le carte anche sul piano politico: quei documenti top secret, usciti prima sul New York Times e poi sul Washington Post, in piena Guerra del Vietnam, mentre infuriava una feroce contrapposizione interna del paese, diedero sì la prima seria picconata alla presidenza del repubblicano Richard Nixon, che sarà poi travolto dal Caso Watergate, citato infatti anche a conclusione del film, ma misero anche in luce il coinvolgimento di ben quattro precedenti capi di stato (Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, due repubblicani e due democratici) in una sostanziale, comune, enorme menzogna ai danni dei loro cittadini, quasi 60mila dei quali morirono a 10mila km di distanza da casa in quel conflitto. In Vietnam, questo era il succo abbastanza coerente di quasi tutte le settemila pagine dei Papers, non si sarebbe mai potuto vincere. Ma all’opinione pubblica non lo dissero, sia pure affrontando il tema con diverse sfumature, più o meno belliciste. E quello studio, commissionato nel giugno del 1967 da una delle più stimate teste progressiste dell’epoca, il segretario alla difesa Robert McNamara (lo interpreta qui Bruce Greenwood), kennediano rimasto al governo anche dopo l’assassinio di JFK, doveva rimanere sconosciuto a tutti. Tutto o quasi fu invece pubblicato, nonostante lui fosse un carissimo amico personale di Katharine Graham.

Così lo scandalo dei Pentagon Papers è diventato uno dei primi passi di quel doloroso itinerario di perdita dell’innocenza e di fiducia nelle proprie istituzioni, nel Presidente innanzitutto, che gli americani da mezzo secolo stanno angosciosamente percorrendo. Smaltito l’entusiasmo per la vittoria nella Grande Guerra patriottica mondiale contro il nazifascismo, già il nuovo conflitto di Corea e la Caccia alle streghe del senatore Joseph McCarthy avevano iniziato a turbare gli americani. Ma furono entrambi contestati più fuori che dentro il paese, allora abbastanza compattamente anticomunista e patriottico (poi le revisioni storiche sono state profonde). Nulla a che vedere con la dolorosa crisi d’identità nazionale innescata dall’impeachment di Richard Nixon, raccontato da Alan J. Pakula in Tutti gli uomini del Presidente con il duo di intrepidi reporter Dustin Hoffman-Robert Redford (“probabilmente”, dice oggi Spielberg, “il miglior film sulla stampa che sia mai stato realizzato”), di cui in fondo The Post è una sorta di prequel. Poi sono poi tragicamente arrivati lo schiaffo mondiale dell’ambasciata di Teheran e l’inarrestabile avanzata economica delle tigri asiatiche giunta oggi al culmine, l’attentato al presidente Ronald Reagan e le malefatte coniugali del collega Bill Clinton, fino al knock-out delle Torri Gemelle, il colpo più duro all’invincibilità militare statunitense fino a quel momento rimasta ancora una sorta di dogma.

L’azione di The Post inizia quando Daniel Ellsberg, economista e uomo del Pentagono (interpretato da Matthew Rhys), convinto che la guerra condotta in Vietnam dal suo Paese costituisca una sciagura per la democrazia, decide di passare alla stampa una parte dei segretissimi Papers, scoperchiando vent’anni e oltre di menzogne governative sulla guerra nel sud-est asiatico. Si diceva in pubblico di lavorare per la pace, ma in realtà ci si organizzava per combattere una guerra. Il New York Times raggiunge le edicole domenica 13 giugno 1971, con in prima pagina il titolo “Archivio Vietnam: gli studi del Pentagono rivelano tre decenni di crescente coinvolgimento americano”, ma poi è impedito a proseguire la pubblicazione da un’ingiunzione del tribunale. Passato editorialmente al contrattacco, il Washington Post, che allora non era ancora un quotidiano di primissimo piano, pochi giorni dopo sfida la giustizia mettendo in pagina molti altri materiali tratti dal rapporto. E il 30 giugno la Corte Suprema, con una sentenza a sua volta coraggiosa, rigetta l’ingiunzione contro la pubblicazione, dando il via libera a tutti i quotidiani d’America e del mondo.

Ha vinto così una delle prime donna editrici, Katharine Graham (con questo personaggio la Streep ha raggiunto la sua 21° nomination all’Oscar, ineguagliabile record per un’attrice già vincitrice di tre statuette), che aveva “ereditato” l’impresa dal marito Phil, morto suicida anni prima, manager editoriale in una società dove di norma i ruoli di potere erano appannaggio degli uomini e dove molti non pensavano che lei avrebbe avute le p…. di sfidare il potere (Spielberg: “Per me oggi la battaglia dei sessi continua. Spero che questo film sia uno spunto perché le donne siano più libere e possano arrivare a sbottare: «Al diavolo, dico quello che penso e faccio quello che desidero!»”), Ma ha vinto anche il suo amico Ben Bradlee, direttore del Post (Tom Hanks, che di Oscar nel suo piccolo ne ha vinti due su 5 nominations, sempre più in forma nel filone actionner politico, da Il ponte delle spie a Sully), convinto senza mezzi termini che non pubblicare quelle notizie avrebbe comportato la morte “ideale” del quotidiano stesso, e la sconfitta dell’intera Costituzione. Katharine dà vita a uno scandalo di stato nonostante l’opposizione degli investitori (il giornale era in fase di ristrutturazione finanziaria) e di molti consiglieri e soci della testata, da poco quotata in Borsa, mettendo a rischio l’azienda e la carriera dei suoi redattori. Ma anche la loro libertà personale: un’eventuale incriminazione per tradimento (erano documenti militari e i soldati americani erano al fronte) avrebbe potuto comportare l’arresto degli autori degli articoli e dei dirigenti del quotidiano. Fedeli al primo emendamento e all’intelligenza dei lettori, i giornalisti si schierano con lei.

È evidente che l’attualità indiretta del soggetto ha convinto Spielberg (due Oscar per Schindler’s List e uno per Salvate il soldato Ryan) e i suoi protagonisti a fare il film in meno di un anno dalla lettura del copione. Allora come oggi c’è grande tensione tra stampa e governo: “Sono cresciuto”, spiega ancora, “coll’incontrovertibile verità che la stampa libera costituisca il guardiano della democrazia: oggi tutto quel che non piace al Presidente viene etichettato come “fake news”. Io invece sono un grande sostenitore di una sola verità, la verità oggettiva”.

Tutto vero, anche se poi The Post è un thriller politico quanto un dramma intimo, entrambi incalzanti, la storia di una redazione decisa a “sfondare” ma anche quella di una famiglia disfunzionale, che riesce a fare quadrato nel momento giusto. Un film sulla libertà di stampa e insieme sul coraggio delle donne nella battaglia per la parità di gender. “Un eccessivo desiderio di compiacere (gli altri, gli uomini, ndr), sindrome così radicata nelle signore della mia generazione, ha condizionato il mio modo di comportarmi per parecchi anni”, confesserà poi Graham nella sua autobiografia. Insomma, un film sull’America del 1971 ma anche, e parecchio, su quella del 2017. Da vari punti di vista.

Girato in 35 mm in omaggio alla cinematografia anni 70, popolato di collaboratori storici di Spielberg, dal musicista John Williams (41 nomination all’Oscar e 5 statuette vinte, per Lo squalo, ET, Schindler’s List e altri) al direttore della fotografia Janusz Kaminski, anche lui Oscar per Schindler’s List , ben sceneggiato da Liz Hannah e Josh Singer (Oscar per lo script di Il caso Spotlight), The Post non racconta un’epoca passata ma una storia che si ripete. Vicino a Lincoln nei caratteri ricchi di intelligenza strategica, nella forza dei sentimenti, nella comunione di un gruppo che opera anche in maniera “illega” nonostante l’istituzione che incarna. Spielberg mette in immagini, ancora una volta, la Storia che torna a compiersi sotto i nostri occhi.

the post

Un film un po’ prevedibile per un target agée progressista, tipo i simpatici Ella e John del film di Paolo Virzì, che ama rispecchiarsi nel buon tempo liberal andato, lontano dalla contemporaneità volgare e reazionaria di Trump, dei suoi mutevoli (anche nel senso di cacciati molto spesso) consiglieri e del suo elettorato spaventato e ignorante? Non solo. Nell’era di internet e di “siamo tutti giornalisti” è forse utile ribadire, soprattutto a un pubblico giovane e nativo digitale (che purtroppo non sembra aver preso d’assalto, per The Post, il box office negli Usa) un concetto fondamentale: che fare giornalismo sul serio, in maniera competente, di qualità, su argomenti decisivi per i destini politici dell’America e del mondo, come quelli di cui si parla e si narra in questo film, è soprattutto una questione collettiva. Come del resto fare buon cinema. E come quello ha costi elevati, richiede mezzi consistenti e un insieme di intelligenze e capacità, immaginazione e razionalità, indispensabili per ideare e gestire inchieste, notizie, “capi d’accusa”. Soprattutto se riguardano personaggi così potenti.

The Post, di Steven Spielberg, con Meryl Streep, Tom Hanks, Matthew Rhys, Alison Brie, Carrie Coon, Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Tracy Letts, Bradley Whitford, Bruce Greenwood, Michael Stuhlbarg, Zach Woods, Iesse Plemons,

 

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