Tamerlano al Palazzo d’Inverno: Davide Livermore racconta la sua regia

In Interviste, Musica

Non bisogna temere i linguaggi. E così il regista torinese debutta alla Scala pensando anche al fotografo LaChapelle

Ancora tre recite, fino al 4 ottobre, per una delle produzioni più emozionanti, prodigiose e struggenti viste alla Scala quest’anno. Per di più di un’opera di Händel, autore sempre meno dimenticato dal teatro milanese – dalla stagione passata con Il trionfo del tempo e del disinganno –, che conquista il pubblico con le quattro ore mezza, intervalli compresi, del suo Tamerlano, che accompagna gli spettatori ben oltre le mezzanotti di fine settembre. Cast magnifico: Domingo imperatore della scena, Bejun Mehta in sfida controtenorile con Franco Fagioli, Maria Grazia Schiavo, Marianne Crebassa e Christian Senn. Direzione di Diego Fasolis.

Tamerlano
Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Si esce senza parole, con un Palazzo d’Inverno sospeso nel vuoto che svanisce nella nebbia, lasciandosi dietro personaggi disattivati, inanimati, ombre barocche che si dissolvono nel nulla. Non si poteva sperare in un debutto migliore alla Scala per Davide Livermore, regista torinese di origini inglesi, che riempie di meraviglia settecentesca la difficile, faticosa partitura di Händel, pur con trasloco temporale a quei giorni rivoluzionari che esattamente cento anni fa, in Russia, sconvolsero il mondo.

Qual è il compito del regista?
Raccontare una storia: io adoro farlo. Sembra banale da dire, invece troppo spesso ci si perde nel tentativo di diventare i traduttori di ogni umana fragilità, o peggio si cerca di dimostrare chissà quali intelligenti relazioni o riferimenti. E la trama è la prima cosa che si perde di vista.

Cosa dà in più allo spettacolo questo spostamento temporale?
Si tratta di un accostamento capace di amplificare la potenza drammaturgica sia del libretto sia della musica. Le contestualizzazioni storiche impostano l’azione, possono persino suggerire i gesti sul palcoscenico.

Insomma regia e drammaturgia si intrecciano.
Sarebbe sbagliato distinguerle. Senza una drammaturgia il regista diventa una specie di assessore all’urbanistica: magari sa posizionare i personaggi e rendere sensato il fluire della gente in scena. Ma la regia è una tecnica che deve essere usata come strumento di narrazione.

Cosa intende con “tecnica”?
Che non si può improvvisare: bisogna essere esperti di scenografia, coreografia, canto, musica. Quando tutto questo manca, al pubblico non tornano i conti e si perde qualcosa.

Cosa si rischia di perdere da una partitura di Händel?
Penso a tutti i meravigliosi spostamenti emotivi nei da capo con variazioni. Se i recitativi sono il luogo dell’azione, le arie del Tamerlano hanno un’altra velocità. È una velocità emotiva, perché il tempo dell’aria è il tempo dell’anima. Sono queste le sottolineature che mi interessano.

Quindi come ha lavorato sui da capo?
Per spiegarmi potrei citare i processi di reiterazione di molti videoclip musicali: anche la canzone in un certo senso si ripete e ci sono videomaker in grado di sfruttare queste ripetizioni per narrare. Penso ad alcuni video di Madonna, di Sting, degli Antony and the Johnsons: in certi casi si tratta di veri e propri capolavori visivi. Un artista come David LaChapelle, ad esempio, risolve tutti i ritornelli in funzione della continuità narrativa: così il da capo diventa un focus in grado di aumentare la temperatura emotiva.

Siamo lontani dal freddo virtuosismo vocale di cui spesso viene accusato il repertorio barocco.
Io e Fasolis abbiamo la stessa idea di come vadano intese le variazioni: entrambi pensiamo che, se usate drammaturgicamente, possano diventare delle vere bombe di espressione. In Tamerlano Händel sembra fare un viaggio attraverso la fragilità umana. Eppure, anche quando non si riescono a trattenere le lacrime, la musica mantiene sempre un’eleganza estrema. È un’estetica diversa da quella di un Francesco Cavalli. Per spiegarmi mi viene in mente American Beauty di Sam Mendes e la poesia che riesce a far emergere con un semplice sacchetto che danza nel vento.

Ancora riferimenti al cinema. Le interessa davvero la sovrapposizione tra le arti.
A me interessa scovare i fiumi sotterranei nascosti in ogni opera. Un artista non può limitarsi a un compitino, non deve aver paura di usare il suo linguaggio. Bisogna togliersi dalla testa l’impostazione da catalogo: secondo me c’è più Purcell nei Beatles che in tutta la musica del suo tempo.

Teatro alla Scala – Georg Friedrich Händel -Tamerlano – Dirige Diego Fasolis – Regia Davide Livermore (repliche: 27, 30 settembre; 4 ottobre)

Fotografie: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

(Visited 1 times, 1 visits today)