Così inquietante, così déjà vu: il futuro secondo Syd Mead

In Cinema, Weekend

Cosa vuol dire futurista visuale? Vuol dire che non ci fosse stato lui non ci sarebbe stato Blade Runner né il suo sequel, né Tron o Tomorrowland. Syd Mead, oggi ottantaquattrenne, ha creato, con i suoi disegni una imprescindibile radiografia del domani e del rapporto tra uomo e macchina che è entrata di prepotenza nel nostro immaginario

Blade Runner, Tron, Aliens – Scontro Finale, Star Trek, Mission: Impossible III, più alcune perle per fanatici un po’ retro come Corto Circuito, Strange Days, Johnny Mnemonic e i recenti Elysium e Tomorrowland. Eppure, nonostante un passato così importante, è proprio con il futuro che Syd Mead ha sempre avuto un rapporto privilegiato, per non dire esclusivo, tanto da meritarsi ufficialmente l’appellativo universalmente riconosciuto di futurista visuale. Designer industriale, architetto d’interni e, soprattutto, concept artist rivoluzionario, Syd Mead può essere a tutti gli effetti considerato il principale responsabile della traduzione sul grande schermo di quel cyberpunk brutto, sporco, cattivo e incredibilmente realistico che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ha improvvisamente reso credibile (per non dire tangibile) la fantascienza moderna tanto da offrirla al pubblico – parole sue – come vera e propria “realtà anticipata”.

In effetti, dalle imponenti costruzioni in sconfinate metropoli fino al dettaglio sul più piccolo dei computer, oggi viviamo e creiamo quotidianamente il futuro che Syd Mead aveva immaginato. Non più il futuro lucido, luminoso e sgargiante dei comics di Flash Gordon o Buck Rogers: forte della sua formazione professionale alla Ford Motor Company, una delle aziende leader del settore automobilistico americano in cui compie i suoi primi passi come designer, Mead predice un mondo di simbiosi e dipendenza reciproca tra uomo e macchina. Un mondo fatto sì di luce e colori accesi, ma senza alcuna utopia di perfezione. Un mondo capace di perdersi nel caos del dettaglio, nell’accavallarsi di ingranaggi bene in vista, un mondo trasparente nella complessità dei suoi meccanismi. I disegni di Mead sono una radiografia del domani, a volte sorprendenti nella loro lungimiranza, altre volte semplicemente affascinanti nel loro dettaglio tecnico, nella loro fisicità. Ovviamente, nulla è lasciato al caso: in ogni progetto o dipinto, da quelli soltanto abbozzati ai più rifiniti, linee e forme guidano l’occhio di chi osserva lungo un percorso tortuoso ma sicuro, definito in maniera quasi maniacale. Come nel caso di Blade Runner di Ridley Scott (1982), in cui, nonostante fosse inizialmente ingaggiato solo per disegnare i veicoli presenti nel film, fin dai primi bozzetti Mead non resiste alla tentazione di contestualizzare le sue creazioni, inserendole come parti di un puzzle in ambienti e quadri perfettamente in tema, tramutando apparenti brainstorming in visioni così complete che è impossibile pensare ad esse come semplici opere di fantasia.

Perché il futurista visuale non immagina soltanto, ma vede la realtà in anticipo sui semplici tecnici, quelli in grado di costruire qualunque cosa, ma non di pensare ciò che ancora non c’è. In questo, lo sguardo di Mead si dimostra fin da subito capace di esplorare ogni angolo dello sconfinato terreno di conquista che è il genere della science fiction, con un unico filo rosso a collegare inderogabilmente la logica dietro ogni creazione: “Deve sembrare che funzioni davvero”. Forte di questo mantra, lo stile del visual futurist attraversa trasversalmente lo spazio e il tempo: muove i primi passi tra le frontiere galattiche in calzamaglia di Star Trek, dà corpo e tridimensionalità in uno stile unico ai primi sogni di realtà virtuale con Tron, unisce passato e futuro nel “barocco supersonico” – ancora parole sue – in Elysium di Neill Blomkamp, cinquant’anni più giovane, erede designato e mai incoronato dell’Aliens di Cameron (altro zampino di Mead) e fan dichiarato dell’opera del maestro. In mezzo, qua e là, piccoli oggetti, rifiniture e dettagli portano la firma inconfondibile di Mead più o meno in qualunque pellicola si possa parlare di action movie futuristico o fantascienza metropolitana: sue sono le cuffie SQUID per registrare e rivivere esperienze passate in Strange Days di Kathryn Bigelow, sua è l’astronave Leonov in 2010, seguito di 2001 Odissea nello Spazio, suo è il robot No. 5 nel classico anni Ottanta Corto Circuito, suoi sono i veicoli in Mission to Mars di Brian de Palma, sua è la tecnologia di Johnny Mnemonic, che gli varrà il riconoscimento di artista cyberpunk per eccellenza nientemeno che da William Gibson, uno dei padri fondatori della corrente letteraria.

E Blade Runner? Sarebbe forse banale definirlo il capolavoro di Mead. Eppure non è da tutti negli anni Ottanta, in piena epoca di effetti speciali “analogici” e artigianali, veder realizzare materialmente sul set ogni singolo schizzo, progetto o quadro esattamente come lo si era immaginato. Non è da tutti riuscire ad avere carta bianca da un regista ossessivo e accentratore come Ridley Scott (che definirà i disegni di Mead “l’evoluzione della bellezza in tecnologia”) per creare, pezzo dopo pezzo, un immaginario così attuale da durare fino ai giorni nostri senza mai sapere di datato o stantio.

Già, perché se il nuovo Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve è soprattutto un viaggio all’ennesima potenza, nel contempo affascinante e verosimile in ogni inquadratura, lo deve in gran parte proprio alle intuizioni dell’ormai ottantaquattrenne “artista che disegna il futuro” (sempre rigorosamente con carta e pennello) come fosse un mestiere qualunque da quasi quarant’anni. Come nel sequel, anche il primo, indimenticabile capitolo ha tra i suoi protagonisti assoluti i setting, gli ambienti interni ed esterni con i loro giochi di luce e ombra, dalle piovose metropoli alle ciminiere di fuoco e ingranaggi, dallo splendido caos di art déco e rottami ai riflessi dorati delle piramidi corporative. Mai come in Blade Runner la narrazione è un lavoro di squadra equamente distribuito tra autore dell’opera originale (Philip K. Dick e il suo inquietante Do Androids Dream of Electric Sheep?), regista e scenografo, con quest’ultimo quasi elevato al rango di narratore principale. Non poteva essere altrimenti: il futuro disegnato, anzi raccontato da Mead per il capolavoro di Ridley Scott, è destinato a passare alla storia perché già intriso di storia presente e passata, regalando allo spettatore, oggi come allora, la strana sensazione, più che di un avvertimento, di un inquietante déjà vu.

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