Sull’Albero di Odin e Barba

In Teatro

Nostalgia favolistica per un mondo forse mai perduto perchè la pace non è sempre possibile. Che cosa resta prima e dopo la morte? Il ritorno della nuova produzione dell’Odin e della regia di Barba provato da profonde perdite, inscena ritualità nel cuore di altre ritualità. Sacre e profane di un teatro – mondo

foto di Rina Skeel

«Vedo una lumaca che striscia sulla lama di un rasoio. È il mio sogno, è il mio incubo. Salire e scivolare sul filo di un rasoio, e sopravvivere. Mi chiamano assassino. Ma come chiamare gli assassini che accusano gli assassini? Mentono». Questa una delle migliori battute dell’ultimo spettacolo dell’Odin Teatret, L’albero, approdato in questi giorni nella chiesa di San Bartolomeo nel cuore della Valle Seriana con il patrocinio del Comune di Albino. Un ritorno questa ospitata dell’Odin resa possibile dall’Associazione Culturale Diaforà (Centro Studi e Ricerca sulla Differenza nato nel 2013, ma concepito nel 2009 su suggerimento del filosofo Carlo Sini), in collaborazione con Àrhat Teatro e il TTB Teatro tascabile di BergamoAccademia delle Forme Sceniche e con il coinvolgimento di DeSidera. Che cosa sia DeSidera è presto detto.

Una branca del lavoro di produzione del milanesissimo Teatro De Gli Incamminati che ha trovato da qualche anno il suo tetto presso lo Spazio Banterle in Largo Corsia dei Servi. Molto più di un festival, il fine di DeSidera è portare teatro tra le persone, nel centro dei luoghi più suggestivi di Bergamo e provincia. In realtà, Eugenio Barba ad Albino c’era già stato. Nel 2016, sempre grazie alla cooperazione tra Diaforà e TTB, l’Odin aveva potuto organizzare nel piccolo Comune bergamasco, la XV sessione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology).

La comunità ha ben accolto questo “gigante” del teatro mondiale. Non pochi i giovani spettatori a cui quasi non sembrava vero di poter conversare in strada, alla fine dello spettacolo, seppur in maniera breve, con un regista dalla fama internazionale, molto studiato, mai visto prima d’ora se non tra le pagine di libri.

Si scopre così che Eugenio Barba ha il vezzo di portare sandali aperti da uomo, anche se fuori è autunno inoltrato e non fa caldo.

L’Albero si apre con l’ingresso del pubblico nel luogo dove si andrà ad assistere all’esecuzione di un rito.

A guidare il pubblico al proprio posto, lo stesso Barba e l’attrice Julia Varley, maestri di cerimonie di quella macchina scenica perfetta che con artificio ricrea ritualità tradizionali per stupire il pubblico in maniera immersiva.

Quasi un tendone da circo, effetto di luci calde – il rossastro dei neon di certi paesi del Sud Italia, i colori di Bali – sedute ricavate da tubi di gomma riempiti e mossi dall’ aria la scenografia e la platea che accoglie gli spettatori divisi su quattro file, due per lato. Gli uni di fronte agli altri. Poco più di un centinaio di persone a sera hanno la possibilità di prendere parte a questo evento-spettacolo. Tutto è calibrato e si capirà nel corso dello svolgimento che non è un caso. In fondo, il teatro, è lavoro di precisione.

Nel mezzo lo spazio scenico disseminato di tronchi. Sopra la testa, tessuti. Lo spazio della Chiesa di San Bartolomeo è stravolto. La sacralità lascia spazio ad altra sacralità. Camminate zen, precisione dei gesti, Kathakali, tradizioni indiane ed orientali, il richiamo allo straniamento brechtiano, sguardi spalancati, presenti e fissi, musica, strumenti, suoni, canti, mantra, uso dei risuonatori, disequilibri sono la cifra stilistica dell’Odin. Elementi rielaborati di grotowskiana memoria.

L’Albero è il terzo capitolo della trilogia degli innocenti, iniziata con la Vita cronica e proseguita con Le grandi città sotto la luna. Doveva intitolarsi “Volare”, ma poi è arrivata la decisione di chiamarlo Albero come l’Yggdrasil – l’albero cosmico della vita a cui si appese Odino.

L’idea nasce dalla volontà di Eugenio Barba di indagare il mistero del sacrificio umano. Come può un essere umano freddare un altro essere umano. Come accade in guerra. Per che cosa si uccide? Per l’amore di patria? Dopo aver saccheggiato la natura, deprivato, seviziato, straziato essere umani che cosa resta? Davanti all’innalzamento di muri come ci si sente? Chi si salva, se c’è possibilità di salvezza? Ecco allora monaci yazidi, signori della guerra, europei e africani, una donna igbo, una giovane sognatrice che vuole combattere contro il Barone Rosso e un’anziana attrice danese che vuole volare insieme al padre, due cantastorie, un personaggio muto. Siria, Jugoslavia, Liberia, Biafra le terre da cui provengono i personaggi. Giacche e cravatte per i signori della guerra europea e testa incappucciata alla loro entrata, tuniche, vesti lunghe, torso nudo per il signore della guerra africana, nasi da clown.

La meraviglia è per l’ingegnoso apparato scenico. Per i veli mossi con bastoni che diventano ora muro che divide il pubblico, ora lenzuolo che cade sugli spettatori a renderli tutti uguali. Forse giudici, forse complici, forse adepti scelti loro malgrado.

Per l’albero – fulcro scenografico da cui il titolo dello spettacolo – ora distrutto, ora saccheggiato, ora risanato, ora luogo di torture e di crocefissioni, ora luogo di rinascita o di distruzione. La cima da cui poter avere uno sguardo diverso e dall’alto su tutte le cose. Forse il punto più alto a cui aggrapparsi per tentare di salvarsi. Secondo la mitologia nordica il gallo d’oro Vidopnir resta appollaiato sull’ Yggdrasil pronto ad annunciare la fine del mondo. Solo due cantastorie alla fine di ottanta minuti continuati e performanti restano a traghettare il pubblico verso l’uscita. Si applaude, ma in scena gli attori non si presentano. Per che cosa si batte le mani? Per chi? Che cosa resta prima e dopo la morte?

Nel frattempo, nel 2010, lasciava le scene di questa vita Torgeir Wethal, attore storico e fondatore insieme a Barba di uno dei gruppi teatrali più longevi della storia del teatro.

Ad ogni modo, da applausi l’interpretazione di Kai Bredholt (signore della guerra europea) che si è ispirato per il suo personaggio a Marlon Brando in Apocalypse Now diretto da Francis Ford Coppola (sembrerebbe ironia della sorte, se è vero che lo studio della recitazione può essere divisa per amore di sintesi, a tratti semplicistica, in due grandi macro – scuole, quella antropologica nord-europea e quella americana), a Kurosawa, a Lars Von Trier, alle letture di Joseph Conrad e a una voce calda e radiofonica intenta a parlare di cibo gourmet. Solo in apparenza una contraddizione. Informazioni tratte dal riuscito libretto scritto per accompagnare lo spettatore nel viaggio della comunità dell’Odin che ha visto due grandi assenti. Tage Larsen e Jan Ferslev. Sulla lontananza del primo, parrebbe che voci di corridoio sussurrino gossip di arte e di amore, mentre sull’allontanamento dell’attore Ferslev sembrerebbe vigere massimo riserbo.

Si apprende così, dal libretto dedicato a Inger Landsted della difficoltà di costruzione del nuovo allestimento del gruppo di Holstebro, “prodotto” concepito di fatto nel 2014 per esigenza di cassa e generato in giro per il mondo in uno spazio compreso tra Bali e le Ande colombiane. Si legge della fatica per cercare di evitare la ripetizione di modalità creative ed interpretative di una “famiglia” artistica in parte mutata, ma operativa sulle scene mondiali da mezzo secolo. Nel tentativo di indagare gli avvenimenti di cui si ha notizia attraverso pagine di cronaca e nella prova di investigare nei meandri dell’essere umano e dei suoi culti, qualunque essi siano, si ha come la sensazione che l’Odin sia soprattutto, ormai, la storia di sé stesso. Affascina come l’ultimo baluardo resiliente, a tratti anarchico (nel senso pacifico del termine), a tratti favolistico di un fare teatro che affonda le sue radici negli anni Sessanta e di cui ancora si può essere, nonostante tutto, testimoni.

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