Stockhausen: un nome avvolto nella leggenda dell’Avanguardia

In Musica

Venerato quanto sconosciuto, grazie a lui – dirà Stravinsky – la musica elettronica è uscita dall’angolo della sperimentazione ed è avanzata al centro della scena. Incuriosito dal pop, spingeva i suoi allievi a creare una musica che non soltanto faccia vibrare il corpo dell’ascoltatore, ma determini in lui uno stato inventivo

Novanta. Karlheinz Stockhausen, che ci ha lasciati da undici anni (il 5 dicembre 2007), ne avrebbe compiuti novanta il 22 agosto. Stockhausen chi? Senza contestazione uno dei grandi del dopoguerra, sceso anch’egli dalla collina di Darmstadt, dove nel dopoguerra si scolpivano le tavole del pensiero musicale europeo che ha dettato legge fino a pochi anni fa. Un nome avvolto nella leggenda dell’Avanguardia, insieme a quelli di Pierre Boulez, Bruno Maderna, John Cage, Luigi Nono, Mauricio Kagel, Luciano Berio, Sylvano Bussotti. Ma per almeno tre generazioni di giovani, pure iscritti al conservatorio, venerato quanto sconosciuto, raccontato o al massimo sbocconcellato. Eppure la sua musica si allunga nei suoni che ci avvolgono, anche a nostra insaputa. Molti modi nuovi di porci di fronte al rito dell’ascolto derivano da lui. Con lui la nostra esperienza si è plasmata in forme diverse, coinvolgenti, rispetto alla frontalità passiva del concerto, destrutturata nelle gerarchie fra strumenti e sorgenti di suono, aperta a ogni inquinamento acustico. «Grazie a Stockhausen la musica elettronica è uscita dall’angolo della sperimentazione ed è avanzata al centro della scena», dirà Stravinsky. Lì si è imposto il suo mito.

Attenti al semaforo. Anni fa, Umberto Eco raccontava questo esempio vero o plausibile: a un semaforo rosso un automobilista decide di accendere una sigaretta, con la mano sinistra abbassa il cristallo laterale (non esistevano i comandi elettrici), con la destra pigia l’accendisigari sul cruscotto (quello sì), estrae il pacchetto di sigarette, ne pizzica fuori una, si rimette in tasca il pacchetto, la radio continua a trasmettere qualcosa, l’accendisigari scatta in fuori, l’uomo innesta la marcia e parte.
Chiaro: nel cervello variamente sollecitato dell’automobilista, il segnale dell’accendisigari è stato scambiato con il verde del semaforo. Non voglio far leva sulle conseguenze di quel gesto per fare subdolamente ricoprire all’ascolto di Stockhausen un sospetto pratico. Sta di fatto che, con l’andar del tempo, il valore della prima musica di Stockhausen è cresciuto in maniera inversamente proporzionale all’ultima, e suonano vaticini le sue osservazioni su ciò che contraddistingue il nostro essere “contemporanei” rispetto al passato: l’abitudine alla simultaneità degli eventi, che Karlheinz intuiva destinati in futuro, il nostro presente, a una crescita esponenziale. Mantenere il controllo su molti fatti e discernimento su molte sollecitazioni nella stessa unità di tempo è quello che la vita ci chiede. Il nostro ginnasio di Atene, ogni santo giorno. E Stockhausen lo vide, lo teorizzò, lo mise in musica sessant’anni fa.

«Credo che un uomo cha voglia vivere nel domani – decretava Karlheinz in un’intervista del 1974 – abbia bisogno di abituarsi alla disciplina di ascoltare o pensare due o tre cose simultaneamente. La musica moderna serve appunto a questo, perché diventa sempre più polifonica; ci sono due, tre, quattro idee simultanee nella musica più avanzata. Insomma, diventa sempre più spaziale. É come essere per strada e percepire insieme il rumore di un aereo, di un’auto e intanto camminare (oggi aggiungeremmo telefonare, chattare, farsi guidare dal gps eccetera): si hanno già tre velocità simultanee. Chi è conscio di questi tempi differenti è già più mentalmente sviluppato di chi ne è ignaro. Così anche chi sa parlare tre o quattro lingue, e può cambiare lingua da un momento all’altro, è molto più vicino a questa musica che alla musica di una volta, che indugiava per un quarto d’ora in un solo tempo, una sola tonalità, un solo timbro».

Siate simultanei, ingiungeva Stockhausen. E la “sua” simultaneità dove si ascolta? Presto: in Punkte e Kontra-punkte (1953), nella violata linearità linguistica dei Klavierstücke I-XI (1952, 1955, 1956), in Gesang der Jünglinge, uno dei pezzi acustico-elettronici più belli ed evocativi di ogni tempo. Forse non il più complesso, ma certo l’origine di molti se non tutti quelli che in dieci anni hanno portato Stockhausen a ergersi Maestro dell’Elettronica. Scritto e ingegnerizzato fra il 1955 e il 1956, il Canto degli adolescenti è qualcosa di simile, per rottura di schemi, alla Danza delle adolescenti (coincidenza?) di Stravinsky, passo che fece esplodere la nuova orchestra del Novecento nella Sagra della primavera (1912). Gesang der Jünglinge si sviluppa sulle parole di lode al Signore dei giovani nella fornace ardente (Daniele), spunto sacro su cui Britten compose una delle sue tre Parabole da chiesa (se non le conoscete, affrettatevi). Le parole delle voci bianche diventano materia variabile di un flusso sonoro composto da generatori di impulsi, percussioni e pianoforte filtrati elettronicamente. Parole a tratti comprensibili, a tratti puri fonemi. Tanta musica elettroacustica di ieri e di oggi inizia dove Gesang der Jünglinge inizia. Un mondo di invenzioni multiple si è consolidato ed espanso da lì fino a capolavori come Hymnen (1967), geniale collage di inni nazionali dal mondo.

Wagner con gli occhi a mandorla. Nuove sale per nuovi ascolti è il motto del primo Stockhausen. Così, a quasi tutti i pezzi elettronici fino alla fine degli anni Sessanta, e oltre, è connaturata una sostanziale spazializzazione, santificata in pagine come Gruppen (per 3 orchestre, 1957), Carré (per 4 cori e 4 orchestre, 1960), Momente (per soprano, 4 cori e strumenti, 1969). Il pubblico siede fisicamente dentro la musica, secondo un rito cui non è estranea una certa sacralità, che con qualche più vistosa inclinazione cerimoniale affiorerà in pezzi come Inori (1974), fino al turbine teatrale del ciclo Licht, stockhauseniana ipertetralogia inaugurata alla Scala con Donnerstag nel 1981, alle visioni soniche interstellari della “Porta del cielo” (Himmels-Tür, 2006) e dei Cosmic Pulses (2007)

Un viaggio del 1968 fra Giappone, Tailandia, Cambogia, India, Persia, Libano e Turchia muove il corpo e la mente di Stockhausen verso l’inevitabilità dell’Oriente. Già nel 1966 in Telemusik, brano pieno di “oggetti trovati”, risuonano il gamelan di Bali, il Teatro Nō, la musica della corte imperiale del Giappone e del deserto del Sahara. Ma sarà poi Mantra, brano-manifesto per due pianoforti ed elettronica, a inaugurare nel 1970 il cammino verso la fiera dell’Est – con le crescenti incursioni di materia e pensiero orientali –, il recupero di un poco di tonalità, sempre come oggetto d’uso, insieme a ulteriori dilatazioni del concetto di tempo. Grazie anche a chi? Naturalmente a Wagner. «La lentezza di certe parti di Wagner è veramente un pezzo di Giappone nella nostra musica occidentale… – osava Stockhausen –. Ci sono elementi di tempo e velocità che sono apparsi nella musica di Wagner per la prima volta…. Ma soprattutto Wagner è arrivato alla grande idea che la terra è stata visitata dagli dèi, e questo è molto moderno, molto attuale». Come dargli torto. «Wagner è stato l’unico a trarre spunto dall’idea dei “visitatori”». Si può essere più contemporanei?

La sirena del pop. Stockhausen si erge nel cuore del ‘68 con il capolavoro della sua “tetralogia” di musica pura, Aus den Sieben Tagen. Seguiranno appunto Mantra (1970), brani di forte gestualità come Harlekin (1976), in cui l’assolo di Suzanne Stephens va in fondo a coincidere con la creazione istantanea dell’improvvisazione jazz, e poi l’avvío della super-tetralogia teatrale con Donnerstag aus Licht (1981), prima giornata delle programmate sette. 

In tutto, Stockhausen fece storia a sé. Nel 1976 affidò alla Chrysalis, etichetta inglese che di avanguardia pubblicava gruppi come Gentle Giant, il nastro acustico-elettronico di Ceylon/Bird of Passage, album che Karlheinz era orgoglioso di vedere esposto sugli scaffali rock (tutti i suoi avrebbe voluto vederli sugli scaffali rock). Il mondo giovanile rimase estasiato. L’avanguardia “vera”, scandalizzata. A Stockhausen luccicavano gli occhi pensando alle musiche ad alto potenziale di vendite, in orgoglioso distacco dall’establishment darmstadtiano che non fosse lui. Bird of Passage (registrato sempre con i fedelissimi Peter Eötvös e i fratelli Kontarsky) doveva essere l’inizio di qualcosa che non seguì, almeno sotto il profilo commerciale.

Dalle sirene pop Stockhausen era attratto, con i dovuti modi. «Molti musicisti pop sono stati anche miei allievi, ma poi hanno capito che il mestiere di compositore o di direttore d’orchestra non li interessava; hanno dunque cominciato a lavorare con piccoli complessi pop, ma non hanno mai dimenticato i principi che io ricerco nelle mie opere, cioè creare una musica che non soltanto faccia vibrare il corpo e lo strato fisico dell’ascoltatore, ma determini in lui uno stato inventivo. Anche se questi musicisti non hanno abbastanza mestiere e per loro creare grandi forme è davvero troppo, troppo difficile». Ci mancherebbe.

Sulla scena colta contemporanea, Karlheinz Stockhausen fu il più sensibile allo spirito del tempo, per l’inquietudine al superamento dei confini. Il che non gli risparmiò ferite profonde dal Movimento: nonostante le strizzate d’occhio al mondo giovanile, il pianista inglese Cornelius Cardew, marxista inflessibile, sostenitore di una musica consonante che parlasse al popolo, gli scrisse “contro” il libello Stockhausen serve l’Imperialismo. Ferita mai del tutto guarita.
D’altra parte, nell’arco dei suoi più di trecento numeri d’opera, anche l’avanguardia dura e pura trovò materia per non perdonare a Stockhausen troppi dérapage verso culture spurie, tenendosi per ultima la soddisfazione di sorridere alla confessione di aver chiara memoria di “un giapponese in me, in esistenze precedenti”.

Karlheinz Stockhausen da Mödrath: che cosa rimarrà di lui anche oltre i suoi primi novant’anni? L’idea che la musica sia «un mezzo per far avanzare sempre più in fretta la coscienza”. Idea non solo sua, ma da lui onorata.

 

 

Immagine di copertina: Di sconosciuto – Stockhausen-Verlag, Stockhausen Foundation for Music www.stockhausen.org, CC BY-SA 3.0

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