Percorsi Sentieri Selvaggi. Sacco e Shimura si raccontano

In Musica

In occasione del ventesimo compleanno di “Sentieri Selvaggi” e dell’uscita del cd “Le Sette Stelle” iniziamo una serie di incontri con alcuni componenti dell’importante ensemble di musica contemporanea. I primi a raccontarci dei loro percorsi musicali (più o meno selvaggi) sono il violinista Piercarlo Sacco e la violoncellista Aya Shimura

Mi siedo con Piercarlo Sacco a un piccolo tavolino del Bistrot Olinda di Milano e immediatamente gli sottopongo il  Gioco della Torre
Irene Loddo – Chi butteresti giù Jascha Heifetz o David Ojstrach?
Piercarlo Sacco – Si tratta di una scelta piuttosto difficile in quanto ritengo imprescindibili entrambi: sono come lo Zenith ed il Nadir e sostengo da sempre che praticamente tutti gli altri violinisti siano dei derivati di questi padri del moderno violinismo. Non posso fare una scelta!

Ma se proprio devi “ghigliottinare” uno dei due chi scegli?…
Beh, la testa la lascerei stare (ride). Posso dire a quale io personalmente mi senta più vicino, il che non è sempre una cosa positiva; tra i due, se proprio devo fare una scelta, direi Heifetz.

Tra J.S.Bach e Astor Piazzolla?
Penso che Piazzolla si arrabbierebbe moltissimo se dicessi che taglio la testa a Bach quindi la testa la taglio ad Astor che se la fa tagliare molto volentieri!

Tra Ivan Krivenski (tuo maestro di violino) e Salvatore Accardo?
Mi stai quindi dicendo di scegliere tra colui che mi ha formato ed il “senatore” che mi ha poi insegnato il vero mestiere? È davvero difficile, praticamente impossibile direi.

Tuo padre era direttore di coro e tua madre cantante. Quanto hanno influito sulla tua formazione musicale? Hai mai pensato di intraprendere altre strade?
Mio padre più che altro era pianista e insegnante di canto e mia mamma è stata sua allieva. Sicuramente hanno influito tantissimo sulla mia attitudine musicale. Sono cresciuto nella musica e sicuramente ho imparato prima ad ascoltare che a parlare. Emettere suoni e rumori per me era una cosa del tutto naturale; non ho mai pensato di fare altro, sono nato innamorato della musica. Paradossalmente erano i miei genitori e in particolar modo mia madre ad avere il desiderio inconfessato – anzi che dico del tutto palesato! – che facessi altro: il medico in particolar modo. Allora e adesso aborro l’idea: con tutti gli innumerevoli vizi che ho, fare il chirurgo sarebbe stato del tutto impossibile. Sicuramente, comunque, mi hanno influenzato positivamente, facendomi vivere quest’atmosfera e non costringendomi anzi a volte addirittura distraendomi dalla stessa.

Hai degli aneddoti di quando eri piccolo?
Direi che ce n’è uno basilare.  Ovviamente sono cose che io non ricordo ma mi baso sui racconti di mia madre. Nella mia famiglia non c’erano violinisti. Ma mio padre aveva degli amici, nella fattispecie un violinista ed un violoncellista che facevano parte dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino, che erano colleghi di mia madre. Ogni tanto si trovavano per fare musica da camera: trio con pianoforte che peraltro da allora forse inconsciamente è rimasta una delle formazioni da me più amate per il repertorio. Mia madre mi racconta che quando si fermavano per un caffè, una pausa, una merenda, durante le loro Shubertiadi pomeridiane io, piccolissimo – avrò avuto un anno e mezzo o due -, mi avvicinavo alla custodia e guardavo il violino ancora “fumante” rimanendone ipnotizzato. Forse è nato qualcosa lì.

Il rapporto coi genitori come è stato nelle diverse fasi della vita?
All’inizio io ho vissuto sempre e solo con mio papà perché mia mamma la vedevo pochissimo: lavorava molto in teatro ed era la fonte di sostentamento più importante della famiglia. Nonostante siano 38 anni che non vedo più mio papà ne ho un ricordo molto forte: mi ha dato la formazione di base, mi ha insegnato a leggere la musica, a suonare un po’ il pianoforte. Tutto era comunque un gioco. Un bellissimo gioco. Con mia mamma le litigate erano all’ordine del giorno: non mi ha mai particolarmente costretto in dogmi o regole ferree ma io cercavo sempre di scavalcare la siepe saltando più in alto. Raffrontandomi con tante situazioni di giovani attuali son stato molto fortunato, con una giovinezza autonoma e spensierata.

Cosa ricordi della tua Torino durante i primi anni in Conservatorio?
Ricordo mille cose, davvero: ogni tanto sogno ancora di andare a lezione. Son talmente tante che forse val la pena di selezionare e dipingere il quadro di una giornata. C’era stata una nevicata storica che aveva coinvolto tutto il nord-ovest d’Italia. Era credo il 1985 ed io quella mattina andai a scuola lo stesso arrivando in ritardo insieme ad altri 4 o 5 temerari superstiti: la tempesta andò avanti tutto il giorno ed io il pomeriggio avevo lezione di musica in Conservatorio. Finisco le mie lezioni, esco e vedo una Torino completamente paralizzata e deserta. Un’atmosfera surreale mi avvolgeva ed io mi sono incamminato dal Conservatorio a casa passeggiando in mezzo alle strade con solo un manto bianco intorno.

Con tutta questa poesia, perché non hai scelto di vivere a Torino allora? Krivenski soffriva la città ambrosiana? E tu? Cosa ricordi di lui e in che rapporti siete adesso?
Torino ora è cambiata molto ma all’epoca era davvero molto provinciale: avevo bisogno dell’europeismo milanese. Unitamente a questo volevo la possibilità di riprendere un certo tipo di percorso formativo con il maestro che mi aveva iniziato allo strumento, il quale si era trasferito a Milano. Krivenski, bulgaro di padre ucraino, viveva a Milano ed io ho avuto un periodo intorno ai 15 anni in cui “pendolavo” tre volte alla settimana tra la capitale sabauda e la città ambrosiana: non soffriva per nulla, anzi ci stava benissimo. Anche io ero sempre euforico quando arrivavo a Milano. A Torino si dormiva, a Milano si viveva. Ogni volta che prendo lo strumento in mano mi ricordo di lui e dei suoi insegnamenti. In che rapporti sono? Beh, lo dovrei chiamare. So che ha telefonato molto recentemente a mia madre per sapere come stavo: lo chiamerò nei prossimi giorni sicuro del fatto che non sentirà nulla di quello che dirò e che dovrò ascoltare io un sacco di cose.

L’ultima volta che ti ha sentito suonare cosa ha detto?
Suonavo in duo con Luca Schieppati e ha detto solo due parole che mi hanno reso però molto felice: sei cresciuto. È rimasto un punto di riferimento fondamentale: non ricordo l’ultima volta che sono andato a fargli sentire qualcosa. Sarà stato il 2000 circa. Non so bene cosa gli farei sentire adesso: il repertorio che più amava era indubbiamente quello legato alle sue origini, ricordo lezioni illuminanti sul Concerto per Violino di Čajkovskij di cui ancora qualcosa mi sfugge. Non avevo capito nulla all’epoca e qualcosa in più ho capito solo in età più avanzata leggendo Dostoevskij.

Pensi che una buona cultura di base, la ricerca e l’interessamento generale per le arti sia fondamentale per fare musica e diventare un buon strumentista?
La musica è sempre andata a braccetto con le altre forme d’arte e con la società. Luigi Nono, per esempio, non ha mai separato le due cose. La partitura di Fragmente – Stille, An Diotima, scritta fra il 1979 ed il 1980 su commissione del Beethoven Festival di Bonn per il LaSalle Quartet e ispirata all’Iperione di Hölderlin, è costellata di citazioni tratte dalla seconda parte del libro (corrispondenza fra Iperione e Diotima). Lunghissima, intensa, estremamente avanguardistica, quasi impossibile da suonare. In generale, comunque, le persone che non vivono la contemporaneità di quello che fanno con la musica e attraverso appunto i parallelismi letterari, culturali, sociali non sono interpreti, sono esecutori.

Un giudizio diplomatico sulla situazione attuale dei conservatori e della formazione musicale di base?
Confusionario. Poco chiaro. Raffazzonato. Senza una linea guida comune perché ognuno fa un po’ quello che vuole. Dispersivo, soprattutto, per gli allievi. Questi ultimi rischiano di perdere tempo credendo di formarsi. Poi passano gli anni e si rendono conto che forse avrebbero dovuto fare cose indirizzate alla loro crescita come interpreti.

Che tipo di insegnante sei? Attività concertistica e attività didattica? Che tipo di soddisfazioni danno? Se fossi costretto a scegliere…
Pessimo. Spesso mi metto dall’altra parte e penso proprio che mi odierei: a volte sono gravemente rompiscatole. Essendo comunque sempre stato curioso quello che cerco di fare è portare esperienze, aneddoti della mia carriera musicale, di strumentista e personali. Credo poco agli insegnanti che hanno sempre e solo fatto gli insegnanti. A livello di avviamento è diverso, le competenze pedagogiche di alcuni insegnanti sono straordinarie; finita però la fase della formazione di base è necessario, secondo me, andare da qualcuno che abbia praticato assiduamente la professione. Sono due soddisfazioni diversissime: in questa fase della mia vita non potrei prescindere da nessuna delle due. La didattica mi dà l’illusione della continuità, per citare Freud. Il concerto mi fa rimanere ancorato alla contemporaneità.

Qual è il tuo rapporto ora con la musica? Cosa ascolti?
Posso dirti i CD che ho adesso in macchina, per esempio: Il II volume dei Concerti Grossi di Arcangelo Corelli eseguiti dal Modo Antiquo e Sardelli, visto che devo iniziare le prove lunedì e li devo sapere a menadito. Love Scenes di Diana Krall con Christian McBride, A Song For The Dead dei Queens of the Stone Age. Adoro i Dandy Warhols. In ultimo un trio classico straordinario, nonostante il nome pittoresco, Milton Banana.

Descrivi in tre parole Le Sette Stelle, il nuovo disco dei Sentieri inciso per la Deutsche Grammophon.
Accattivante, coinvolgente, ben pensato.

Quanto è stato difficile uscire dalla forma mentis del repertorio classico e lanciarsi nella musica contemporanea, jazz, tango? Hai avuto difficoltà nel farti strada in questi campi? Hai ricevuto critiche?
Non si tratta di entrare e di uscire: sono semplicemente forme di espressione diverse, linguaggi diversi ma fan tutti parte della stessa Babele. Un buon musicista ha l’elasticità mentale della curiosità e sa mettersi in gioco. È proprio un fatto empatico. Ho ricevuto sicuramente critiche per aver fatto nella mia vita molti tipi di musica differenti, scostandomi dall’impostazione che davano i conservatori. Ricordo, per esempio, un mio molto poco illustre collega – anzi neanche collega -, che, quando suonavo in milonga mi dava offensivamente del violinista da balera. Mi son fatto una risata.

Sei uno strumentista estremamente versatile e poliedrico: come ci riesci? Ragioni a compartimenti stagni isolando il brano e l’autore nel suo periodo storico o fai delle tue diverse sfaccettature i tuoi punti di forza?
È necessario contestualizzare al massimo: bisogna entrare nel preciso momento storico con tutti gli annessi e connessi. Uso sempre partiture originali e trovo il processo, per così dire, archeologico, di scavo, di fondamentale importanza. Ovviamente poi tu metti te stesso in quello che studi e che suoni: non si tratta però di contaminazione ma solo di biunivocità tra lo strumentista e la pagina pentagrammata.

Intanto arriva Aya Shimura, ci presentiamo, si pulisce gli occhiali, si siede al tavolo con noi. 

Chi è il tuo Selvaggio preferito?
C’è qui Aya, non si può mica dire! (ridono entrambi) Comunque siamo davvero una grande famiglia: è come chiedere alla mamma chi è il suo figlio preferito.

Sei stanco di fare musica “difficile”? Pensi che prima o poi smetterai?
Sì, prima o poi smetterò. Però potrebbe anche essere che dopo una sana e robusta vacanza ne esca rinvigorito e con tanta voglia di fare tanta altra musica difficile.

Boccadoro, che direttore è? Che rapporto avete?
Ci conosciamo da più di 20 anni: è un rapporto di amicizia con tutte le complicazioni del caso. Mi chiama Pirata perché prendo d’assalto le cose. Per Miotto, invece, sono la Tigre. Non so ancora bene, dopo tutto questo tempo, il perché.

 

Aya Shimura intanto ha preso confidenza con il luogo e la situazione e posso passare a parlare con lei.

Come è avvenuta la scelta del tuo strumento? Chi ti ha spinto verso il violoncello?
Aya Shimura – I miei genitori erano entrambi strumentisti: mio padre era organista e mia madre insegnava pianoforte. Da bambina mi portavano da una parte all’altra ad assistere a prove d’orchestra e concerti. Ricordo chiaramente la volta in cui ho assistito all’esecuzione della seconda Sinfonia di Gustav Mahler: era uno spettacolo e contemporaneamente una scoperta per gli occhi di una bambina. Vedere tutte quelle persone, sentire tutti quei suoni così imponenti, poter osservare degli strumenti così diversi da vicino. Ero affascinata dai suoni gravi: inizialmente volevo suonare il contrabbasso, ma secondo mia madre era uno strumento troppo ingombrante e non adatto ad una bimba di 8/9 anni.

Hai sempre pensato di fare musica?
Ci sono cresciuta, non ho mai pensato di fare altro. Son sempre stata attratta dal palcoscenico, forse avrei potuto fare l’attrice in alternativa. C’è da dire che essendo la musica molto più vicina a me, ho avuto la possibilità di arrivare al palco. Pensandoci bene, per questa mia continua voglia di ricerca, forse avrei potuto fare l’archeologa o la giardiniera.

Che rapporto hai con il palcoscenico?
Inspiegabile, come d’altronde lo è quello con la musica. Alla fin fine cos’è la musica? Non è nulla di fisico, non è solo un suono, non è solo la partitura, un pezzo di carta scritto dal compositore, non è lo strumentista né lo strumento. Mi sento di essere solo una chiave o una serratura, a seconda dei punti di vista, utile a rendere vivo questo tempo. Moltissime persone hanno discusso filosoficamente della questione, io davvero non riesco ad inquadrarla razionalmente.

Riesci a ricordare la prima volta che ti sei sentita soddisfatta di quello che stavi suonando?
Non mi sento mai soddisfatta. Sono contenta quando il pubblico è contento. La sensazione fisica della soddisfazione è estremamente volatile, appena la si prova, appena anche solo la si pronuncia la magia svanisce. La nostra mente è strana e comanda le nostre sensazioni in maniera altrettanto particolare: non possiamo sviluppare una tecnica per produrre e riprodurre quel tipo di sensazione, diventerebbe qualcosa di artificiale. Io cerco solo di essere il più possibile onesta con me stessa e di conseguenza con chi mi ascolta: sto esattamente nel mezzo tra il pubblico, il compositore, la partitura.

Paragona la formazione strumentale italiana e quella giapponese: quali differenze metodologiche e di approccio ci sono? Pensi che una sia meglio dell’altra?
In Giappone non esiste la modalità del conservatorio, una volta raggiunta la maggiore età scegli la facoltà di musica, come puoi scegliere la facoltà di matematica o quella di lettere. Quella giapponese è una modalità indubbiamente più vicina al modello americano. In Italia ho sempre fatto corsi di alto perfezionamento: ciò che ho trovato particolarmente stimolante nella Penisola è questo rapporto di discussione con il maestro che hai davanti. Si parla di musica, ci si confronta, si scambiano opinioni: in Giappone siamo molto abituati solo a ricevere. Il maestro è la cima della montagna, inarrivabile e a cui bisogna portare totale rispetto. Si cerca di assorbire e rubare i trucchi del mestiere. È un metodo molto rigoroso. C’è però, nel mio paese d’origine, molta attenzione alla musica tradizionale e questa è una grandissima ricchezza.

Hai un violoncellista di riferimento?
Casals, sia musicalmente che umanamente, sicuramente è un forte punto fermo nella mia vita.

Cosa ricordi del periodo di studio con Franco Rossi del Quartetto Italiano?
Franco Rossi per me è stato davvero importantissimo. Mi ha insegnato l’amore per la musica, il folle amore per la musica. Lui trasmetteva questo: non era tecnica, non era repertorio. Mi ha fatto capire profondamente quanto la musica può diventare importante nella vita. Ho con Rossi un legame affettivo: mio padre ascoltava il Quartetto Italiano ogni volta che venivano in Giappone. Alla fine della sua vita, purtroppo, era rimasto molto solo e la moglie stava molto male: pochissimi suoi allievi, tra cui me, son rimasti più o meno in contatto. Per me è stata un durissimo colpo quando è mancato. Per farti capire: una volta mi aveva promesso una borsa di studio. Alla fine per problemi burocratici non era arrivata e, nonostante lui e la sua famiglia facessero fatica a tirare la fine del mese, mi ha staccato un assegno del valore della borsa di studio. Io ho cercato di fermarlo: aveva passione per la musica, credeva moltissimo nei giovani e faceva di tutto per aiutarli e spronarli. Eccezionale davvero.

Pensi che per una donna la carriera musicale sia più difficile rispetto a quella di un uomo?
Ormai credo proprio di no. Forse in passato, cito l’orchestra di Vienna in cui non c’era neanche una ragazza, ma al giorno d’oggi direi di no. Il campo musicale è comunque tendenzialmente meritocratico.

Qual è stata l’ultima volta che ti sei commossa ascoltando della musica? Chi suonava e cosa?


Un paio di giorni fa. Era una Sonata di Schubert suonata da Brendel, non ricordo quale.

Boccadoro che tipo di direttore è? Severo ma giusto?


Assolutamente. È una persona incredibilmente colta ed interessante. Un pozzo di scienza, stimolante sia lavorarci insieme che farci una semplice chiaccherata.

Descrivi il momento più bello di questi 20 anni di Sentieri, ad esclusione dell’uscita de Le Sette Stelle.
Non ho un ricordo preciso o una serie di ricordi. Ce ne sono talmente tanti che è difficile scegliere. La sensazione davvero più bella e profonda che ho con Sentieri Selvaggi è quella di costruire. In questi dieci anni che ho suonato con loro non ho mai avuto la sensazione di fare passi indietro o di rimanere ferma: è un progetto in continua evoluzione e continuamente si aggiungono mattoni, tasselli di puzzle, pezzi di vite atte a formare un unicum.

Immagine di copertina: Giovanni Daniotti