A Selma l’oscar dell’impegno: ma lo merita?

In Cinema

I drammatici giorni del ’65, la marcia dei neri guidati da Martin Luther King, in un film necessario ma pedante e retorico: salvato dagli attori e dalla musica

Il cinema americano produce spesso delle opere di carattere biografico/storico per riaffermare le conquiste del passato in una società sempre in contraddizione con se stessa. Pellicole che difficilmente all’estero vengono altrettanto apprezzate, ma che in patria riscuotono successo proprio perché rispondono a quest’esigenza ben precisa.

Quando nel 2013 la Corte Suprema ha deciso di cancellare la parte del Voting rights act che obbligava alcuni stati del Sud a chiedere l’autorizzazione prima di modificare le proprie leggi elettorali, un film come Selma – Le ali della libertà di Ava DuVernay è diventato necessario. Necessario per ricordare quanto duramente Martin Luther King Jr. e il movimento per i diritti degli afroamericani avessero combattuto nel 1965 per conquistare quelle regole in stati altamente razzisti.

La storia ha inizio in un piccolo paese dell’Alabama, Selma appunto, dove il tentativo di voto (fallito) da parte dell’attivista Annie Lee Cooper (Oprah Winfrey, anche co-produttrice del film) diede il via a un’escalation di proteste, repressioni violente a lotte capace di coinvolgere persino Martin Luther King Jr. (David Oyelowo). Tra il tentativo d’ingerenza del presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) e il “lavoro sporco” dell’FBI, gli occhi del paese intero si rivolsero verso le marce insanguinate per i diritti civili organizzate a Selma.

Come gli altri candidati all’Oscar per il miglior film The Imitation Game di Morten Tyldum e La teoria del tutto di James Marsh, anche Selma è un biopic ad alto tasso emotivo e di facile fruizione. Tuttavia, a differenza degli altri due contendenti, il film della DuVernay (sceneggiato da Paul Webb) è un lungo sermone auto-celebrativo che non lascia nulla all’immaginazione.

Gli infiniti dialoghi e un plot talmente aderente alla realtà da risultare a tratti pedante, sono i difetti principali di un’opera furba tanto quanto The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca (2013) di Lee Daniels, dove Forrest Whitaker interpreta l’assistente nero di tanti presidenti, da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan, anche questo ispirato a una storia vera.

Un’idea di cinema impegnato forse consolatoria, ma lontana da ciò che andrebbe fatto: per educare il pubblico non servono queste narrazioni perfette, plastiche, leccate, bisogna piuttosto colpire con la più cruda delle realtà. In questo senso, l’esempio migliore arriva dal recente lavoro del regista britannico Steve McQueen, capace di sconvolgere e far discutere con 12 anni schiavo. Nessun filtro va concesso: per capire tutti devono rivivere (anche se per osmosi, attraverso lo schermo) ciò che all’epoca i personaggi videro coi loro occhi e patirono in prima persona.

Da salvare la bella prova di Oyelowo e la colonna sonora, la cui canzone di punta Glory (cantata da John Legend e Common) ha già ricevuto un Golden Globe e vola ad ali spiegate verso l’Oscar. Selma – Le ali della libertà rimane un racconto troppo retorico e patinato, incapace di emozionare o forse anche di smuovere le coscienze.

Selma – Le ali della libertà di Ava DuVernay con David Oyelowo, Oprah Winfrey, Tom Wilkinson, Carmen Ejogo 

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