Finale di partita: Kurtág torna a giocare con Beckett

In Musica

Il grande compositore si ispira nuovamente a Beckett (ricordiamo “What is the word”) e mette in scena in prima mondiale alla Scala per Milano Musica questa sua versione musicale del testo del drammaturgo irlandese. Markus Stenz dirige con incisività l’orchestra della Scala

È nata un’opera. Il 15 novembre, alla Scala. Le “scene e monologhi” che György Kurtág ha ritagliato da Finale di partita e messo in musica sulla parola di Beckett, hanno già un posto vicino ai titoli che contano dal Novecento a oggi. E senza soffrire opposizioni, direbbe Don Giovanni. Con quel che ha composto nella sua vita, György Kurtág (1926), non aveva bisogno di dimostrare nulla per tenere alto il suo nome vicino a Berio, Nono, Stockhausen. Ma ha voluto compiere un atto di fede nell’opera, che non ha mai praticato, e oggi la sua Samuel Beckett: Fin de partie si apre uno spazio accanto alle Vere storie, ai Soli carichi d’amore, ai Sabati da luce. Sia Kurtág, sia la sua prima e unica opera possono anche mettersi in fila senza arroganza dietro a Berg, Janáček e Britten, aggiungendo qualcosa ai Wozzeck e Lulu, Kát’a Kabanova e Affare Makropoulos, Morte a Venezia e Peter Grimes. Qualcosa di diverso ma “in continuità”. Samuel Beckett: Fin de partie è un pezzo di vero teatro musicale che ci spinge là dove Beckett è solito metterci con le spalle al muro: nel cunicolo di certe foto di Irving Penn in cui c’è una sola cosa da fare, affacciarsi sui precipizi dell’esistenza.

Credit RUTH WALZ

L’opera commissionata dalla Scala “di Pereira”, al centro del festival che Milano Musica dedica a György Kurtág e al suo sguardo a Beckett, coprodotta con la Dutch National Opera, tradotta in scena da Pierre Audi, regista dello spettacolo anche perché direttore ad Amsterdam (mandato appena concluso), con le scene e i costumi di Christof Hetzer, le luci di Urs Schönebaum, già in questa prima “Milan Version” (in scena ancora il 22, 24 e 25 novembre), è pronta a entrare nel repertorio contemporaneo di ogni teatro. Ma opera di che tipo, con quali ambizioni e scopi?

Elogio della lentezza e della velocità.
Samuel Beckett: Fin de partie emerge dal dominio della lentezza: quarant’anni per trovare il coraggio di musicare tutto o in parte il testo di Beckett, dopo averlo visto in teatro a Parigi nel 1956; vent’anni di corteggiamenti per decidersi a farlo; otto per lavorare al progetto, che Kurtág avverte non concluso. (Si prepara ad aggiungere una scena e vorrebbe scrivere anche interludi strumentali fra i quadri, sconsigliato da Pierre Audi, che gli è amico, con solidi argomenti: “Farebbero durare l’opera non due ma forse anche tre ore – avverte Audi – costringendo a un intervallo che è una contraddizione, quasi un crimine per Beckett e Fin de partie”. Gli darà ascolto?)

Pur muovendosi da cinquant’anni nel dominio della lentezza, l’opera che Kurtág intendeva comporre tenendosi stretto a Beckett, doveva però essere un esercizio del suo contrario, la velocità, la sintesi, la brevità, di cui il musicista ungherese è maestro: la sua lingua, il suo pensiero, la sua ricerca timbrica sono rivolti alla concentrazione dell’aforisma. Difficile immaginare un compositore più beckettiano.

Schubert e Webern
Irlandese asciutto, severo e depresso, Beckett era anche un musicista rifinito: suonava il pianoforte, conosceva gran parte del repertorio liederistico. I suoi autori non erano Wagner o Mahler (“c’è troppo dentro”), e non molto Beethoven, ma assolutamente Schumann e sopra tutti Schubert, del quale cantava a memoria la Winterreise e lo Schwanengesang. Fra gli autori della modernità, un prediletto: Anton Webern.
Kurtág, uomo di rigore etico e di sensibilità straordinaria, antiretorico per natura e impegno, dice di essere diventato compositore dopo la folgorazione di un ascolto, l’Incompiuta di Schubert. E il maestro della modernità più ammirato? Anton Webern.

La lingua di Beckett deve molto al Lied come microcosmo di un teatro sommerso. Dall’altra parte, le musiche più dense di magia di Kurtág nascono dal calarsi del Suono nella sintesi spazio-tempo che Webern ha instillato in tutta l’estetica moderna. Lo scrittore e il musicista si sono guardati allo specchio e si sono riconosciuti. Tutto questo si ritrova in Samuel Beckett: Fin de partie? Quasi sempre. Non sempre.

Pericoli del Tempo
“Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire. Finirà presto”, balbetta Clov, il servo deambulante di Hamm, padre-padrone cieco e immobile sulla sedia a rotelle. Che cosa è finito? Tutto, il desiderio di vivere, la vita stessa. “Basta, è ora di farla finita, anche nel rifugio”, insiste Hamm. “E tuttavia esito, esito a… farla finita”. E sbadiglia. Parole tragiche si trasformano in penose debolezze nel giro di una frase. In tutta Fin de partie, tragedia e farsa si danno la battuta e se la tolgono da sole. Kurtág ne segue i colpi battuta per battuta, musicando ogni sillaba, come se la musica fosse sottolineatura del testo e non viceversa. Il tempo però è un dio pericoloso: per inseguire la parola di Beckett, Kurtág si trova anche costretto a dilatare il suo linguaggio, che è fatto di nota, suono e durata fuse insieme. Specie nella parte finale (i monologhi di Hamm e Clov), ricorre a moduli, frasi, frammenti melodici, idiomi e sforzati che sono “meno Kurtág”, ne confondono l’identità, lo fanno assomigliare ad altri. Comunque diverso e distante dalla cifra emozionante e sbalorditiva di What is the Word, pagina per voci e orchestra molto ben eseguita pochi giorni prima, sempre per Milano Musica, dall’Orchestra Verdi in Auditorium, sotto la guida di Sylvain Cambreling. Il pezzo forse più finemente beckettiano composto da Kurtág. Ma potrebbero essere peccati di cui si dispiace solo chi lo segue da sempre.

Quattro prigionieri della vita.
Samuel Beckett: Fin de partie è ora un’opera in 14 numeri nella quale, immersi in un’orchestra grande mai usata per intero, disarticolata in voci sciolte cameristicamente, con strumenti nobili e poveri come la fisarmonica e il cimbalom, recitano e cantano quattro prigionieri della vita che non saranno mai Wanderer, non potranno mai andare da nessuna parte. Hamm è cieco e fermo su una sedia a rotelle, Clov non può al contrario mai sedersi, Nell e Nagg, madre e padre di Hamm, sono tronchi umani affondati in due bidoni della spazzatura perché hanno perso le gambe in un incidente di tandem (sic). Tutti chiusi in una stanza dalle cui alte e piccole finestre si vedono un mare e una terra che non hanno più abitanti, e forse nemmeno esistono più. Stretti in un “rifugio” per proteggersi da che cosa? Una catastrofe? Una lenta estinzione dell’umanità?

Lo spettacolo che Pierre Audi ha creato alla Scala aggira il problema dell’interno claustrofobico prescritto da Beckett: una spettrale casetta “vista da fuori” cambia gradualmente prospettiva, creando varietà ma anche imponendo sipari che interrompono il flusso dell’opera. A suo merito, Audi muove con grande esperienza e arte scenica, ricorrendo ad antichi e sempre vincenti giochi d’ombre, il dentro e il fuori di una realtà bloccata nell’ombra e nel vuoto. Un mondo in bianco e nero ci attira nella desolazione di Beckett e ci consegna all’ultima partita persa dagli uomini. Intensamente e fascinosamente.

Il mondo che non c’è
Nella fissità dello spettacolo, quattro cantanti-attori rispondono al vincolo con prestazioni da virtuosi: il baritono scuro Frode Olsen, inchiodato alla sedia di Hamm, riesce a restare nel fuoco dell’opera dall’inizio alla fine; il baritono alto Leigh Melrose, inquieto e nevrotico sulle gambe storte di Clov, ci inganna con il personaggio più in falso movimento; Hilary Summers, mezzosoprano cui toccano i pochi frammenti di mamma Nell, è indennizzata da un prologo aggiunto, sui versi della poesia di Beckett Roundelay; Leonardo Cortellazzi, tenore limpido e schietto, padrone della dizione francese migliore del gruppo, si permette miracoli di espressività nel chiuso del suo bidone.

Credit RUTH WALZ

Dopo essere entrato non da maestro sostituto nell’Elektra di Strauss lasciata da Christoph von Dohnányi, Markus Stenz cura con incisività sorprendente l’orchestra grande ma cameristica di Kurtág, raccoglie le voci rispettandone le pause e i silenzi, perfino ampliandoli nel corso delle recite. L’orchestra della Scala trova la giusta misura anche su questa musica finora sconosciuta, mentre lavora sullo Strauss di Elektra e già prepara il Verdi di Attila per il 7 dicembre. György Kurtág, costretto a non muoversi da Budapest come i suoi personaggi, si dice molto soddisfatto.

Anche noi alla finestra
“Tu credi nella vita futura?”, chiede Clov. “La mia lo è sempre stata”, ostenta Hamm. “S’è rotto il filo, siamo rotti noi”, incalza. “Tra poco si rompe tutto. Non ci sarà più voce”. “Ma riflettete, riflettete, ormai siete al mondo, non c’è più rimedio!”. “Reclamavi la sera, eccola che viene”.
Il testo di Beckett è invecchiato? Forse la verità è ancora più estrema, come suggerisce Hamm quando ironizza su “Un lungo silenzio si fece udire”: la parola di Beckett non ha bisogno nemmeno di essere recitata per essere vera e toccarci l’anima. Le molte persone che, durante le pause, lasciano la Scala, forse non se ne vanno perché si annoiano o non capiscono, ma perché quelle domande non le vogliono sentire. E tantomeno se le pongono. Ma il destino ha voluto che si aggiungesse perfino una musica da far risuonare su Fin de partie di Beckett, scritta da un giovane di 92 anni che ha vissuto abbastanza per suggerirci prudenza: potremmo anche noi essere affacciati alle finestre dei nostri rifugi a guardare un mondo che non c’è.

Milano Musica/Teatro alla Scala György Kurtág Samuel Beckett: Fin de partie. Dirige Markus Stenz, regia di Pierre Audi (repliche: 22, 24, 25 novembre)

Fotografie © RUTH WALZ

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