In altre parole, sacro

In Letteratura

Nell’ultimo giorno dell’anno, si entra da qualche secolo a questa parte nel mese di Ianuarius: la terra del potente Giano, doppia faccia, è il luogo ideale per tirare le somme dell’appena trascorso e abbozzare nuove aspettative. Per questo è un tempo speciale, di cui è facile percepire la sacralità. Sopravvive, dunque, il sacro nell’era della tecnologia? Pare proprio di sì, ed è un terreno tutt’altro che deserto.
Il corpo, il vincolo con l’altro, il rapporto con Dio: in sei libri una riflessione su sacro, società e scrittura. Perché la letteratura sa vederci molto lontano.

Ciò che è avvinto a una divinità – e la segue, e la adora. E per questa unione è separato, ed inviolabile, e venerando.
Questo è ,*sac: tra i più antichi fonemi modulati a orecchio umano.
A volere immaginare la storia dell’uomo come la nascita di un linguaggio o un progressivo appropriarsi di parole, *sac si colloca in quel brodo linguistico di radici primordiali e generative che è l’indoeuropeo.
Un suono di tre lettere, che attraversa tutto il bacino del Mediterraneo, e oltre, sta all’origine di una delle parole più dense, condivise, resistenti e pur misteriose di tutta la storia.

Sacro, da cui sacrale e poi santo, è l’atto stesso della vita.

“È difficile immaginare (…) come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale ; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato”.

Così Mircea Eliade in La Nostalgie des Origines, nel 1969 circoscrive un concetto che riprende più volte successivamente: il ‘sacro’ altro non sarebbe, insomma, che un elemento nella struttura della coscienza, poiché gli stessi elementi costitutivi della vita umana – il cibo, il sesso, il lavoro – hanno in sé un valore sacrale.

Possono, in altre parole, cambiare i tempi, le civiltà, i modi, i linguaggi e le tecnologie, ma la manifestazione del sacro (esattamente come i suoi mutamenti, il suo peso o, viceversa, la sua rimozione) resta un nodo fondamentale per capire la società:

essere (o piuttosto divenire) un uomo significa essere ‘religioso’

afferma ancora Eliade, anche  – e soprattutto – quando l’essere umano affronta epoche di crisi e di stravolgimenti profondi.

Non è un caso che, proprio in questi anni di radicali mutamenti e manifesta secolarizzazione dell’Occidente, parimenti si assista a una inedita diffusione e promozione di percorsi che dello spirito e del benessere interiore fanno la propria bandiera: yoga, discipline ayurvediche, mindfulness, percorsi olistici, e insieme tai chi e ginnastiche orientali, ritiri e immersioni in contesti di clausura laica, e ancora meditazione ed esercizi spirituali pervadono l’orizzonte delle possibilità contemplabili, delle prospettive considerabili, delle fughe temporali ad alta accessibilità – a testimonianza, fosse il caso di ricordarlo, che per quanto cospicuo sia il salto in atto della terza rivoluzione industriale, la società tecnologica non è riuscita a pianificare una soddisfazione completa e tombale della propria inquietudine spirituale.

Ci sono, è vero, oggetti che hanno di recente scalato le posizioni nella piramide della sacralità: primo fra tutti, il corpo, nuovo totem cultuale, tempio di contemplazione e altare su cui consacrare la sete di perfezione.
Ma. Ma le funzioni del sacro sono tutt’altro che univoche ed esaurite.
L’ingresso dei libri negli spazi dei supermercati ha amplificato ciò che nelle singole librerie si è andato registrando più lentamente, ma che ora è, senza scandalo, sotto gli occhi di tutti: e se tra ceci e seitan si può mettere nel carrello anche un concentrato di aforismi da far impallidire le Upanishad, la geografia spiccia delle librerie registra l’allestimento in pianta stabile, e in espansione, dello scaffale “Spirito, misticismo, religioni orientali, simili” a contendersi gli spazi con i molossi della scrittura di tutti i tempi.

Non è una novità che le arti in genere, e la letteratura in particolare, possano essere considerate come sismografi efficaci dei movimenti tellurici del sentire: dunque è lecito guardare alla produzione degli scrittori per avere uno specchio di ciò che sta succedendo, di ciò che è successo. E, pure, di ciò che accadrà.

Se lo scrittore, come spesso succede, è un percettore più raffinato e acuto della società, quello che del rapporto tra uomo e sacro sta accadendo è uno dei campi di riflessione dagli esiti più sorprendenti degli ultimi tempi. Soprattutto lì dove con sacro si guarda direttamente al religioso.
Perché quando ci si chiede: dov’è finita la religione, oggi? non si sta chiedendo altro che: dove sta andando, e come, il sistema di riferimento complessivo dei nostri valori. Quelli che, fino a ieri sembravano il cardine del nostro sentire: in quanto, appunto, sacri.

 

Sacro come un ospite. Ma del tradimento si sapeva.

“Sempre di più la questione dell’immigrazione in Italia sembra diventata un’emergenza, ingigantita continuamente da drammatici fatti di cronaca. Sempre di più si stronca ogni richiamo verso la solidarietà e l’ascolto dell’altro con un malcelato scherno, additandolo come buonismo pericoloso, denigrando le anime belle che credono nella forza del dialogo e della pace”.

Questa quarta di copertina ha otto anni. Quasi nove, a dire il vero.

Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, pubblicava per Einaudi nell’aprile del 2010 un piccolo libro, L’altro siamo noi.

A rileggerlo oggi, la riflessione di quello che ci sta accadendo sotto gli occhi c’era già tutta. E fa una certa impressione. In poco meno di un centinaio di pagine, il ritratto del nostro cambiamento di linguaggio, di clima, di respiro viene tratteggiato all’interno di un ragionamento di logica stringente: la consapevolezza che l’alterità ci appartiene (e se oggi noi siamo noi, non è detto che non dobbiamo diventare a nostra volta altro rispetto ad un diverso contesto sociale), la riflessione su ospitalità vincolo e dialogo, il rimando evangelico alla questione dell’essere stranieri estranei nemici, l’emergenza civiltà legata al disconoscimento della cosa pubblica, il rapporto tra paura e diversità. Infine, la questione della responsabilità e dell’indifferenza.

“Questi sono anni in cui molti italiani si sentono autorizzati dagli esempi provenienti da quanti occupano posizioni di rilievo anche istituzionale a far uso non solo di espressioni violente, volgari, offensive dell’altro, ma pure di un profondo disprezzo per qualsiasi regolamentazione. L’egolatria dominante reclama che i bisogni soggettivi siano accolti da tutti come diritti, anche se contro gli altri e contraddicenti l’umanizzazione; dimentica che accanto ai diritti ci sono sempre dei doveri; essa sembra negare ogni responsabilità personale per inquadrare il male compiuto in una fisiologia della vita umana personale e sociale”.

Otto anni dopo, al ragionamento di Enzo Bianchi si può sovrapporre quello, proveniente da un percorso di formazione e di storia personale decisamente diverso, di Edoardo Albinati, scrittore romano di caratura e vincitore del Premio Strega nel 2016. Altro saggio, altro breve e fulminante concentrato di disvelazioni. Così scrive Albinati in Cronistoria di un pensiero infame, pubblicato in agosto da Baldini+Castoldi:

“L’aperto disprezzo, quasi lo schifo che viene mostrato verso qualsiasi tentativo di ragionamento, il gusto di troncare sempre e comunque il discorso con uno slogan, ci metto la mano sul fuoco che causerà guai seri a ogni livello, legislativo, giuridico, burocratico, e pasticci applicativi senza fine, con tutti gli interessati che procedono in ordine sparso, smentite, dietrofront, minacce, contrordini, faccia a faccia, gente che sbrocca e straparla (sentendosi ampiamente autorizzata visto che i primi a farlo sono i vertici dell’esecutivo…) e non solo sul tema dell’immigrazione, perché poi è difficile governare uno Stato se ci si rifiuta a priori di riflettere, e i problemi quando sono complessi non si risolvono con qualche battuta ironica o volgare”.

E, ancora, il parallelismo sulla questione del linguaggio tra i due scritti, letti in sequenza, assomiglia quasi a un vertiginoso rivelarsi di una predizione.
Scrive Enzo Bianchi:

“Non si dimentichi che le parole quando si caricano di odio diventano armi, che le accuse reciproche senza più limiti né rispetto spingono alla negazione e alla distruzione dell’avversario, che il continuare ossessivamente a indicare nell’avversario il Male genera a poco a poco una violenza che può arrivare ad assumere persino le forme del terrorismo più o meno elaborato ideologicamente.
Saremo capaci di un soprassalto di dignità umana e di etica democratica?”

Gli fa eco, dopo un decennio scarso, da una società decisamente cambiata a livello digitale, e che digitalmente ha cambiato la percezione dell’essere sociale, il pensiero di Edoardo Albinati:

“L’odio verso gli altri è una versione semplificata e resa esplicita dell’odio verso se stessi, ma in origine è lo stesso sentimento, che poi si sdoppia: sembra che nasca per difendersi e proteggersi, in realtà devasta chi lo prova (…).
Questa gente perennemente con la bava alla bocca, che si spreme le meningi per trovare epiteti da digitare, bersagli da colpire, colpevoli del loro insano malessere da accusare, deve arrivare a sera stremata, niente affatto sollevata o soddisfatta bensì con i nervi a pezzi. Sfogandosi in realtà ha accumulato ulteriore carica distruttiva. (…) I grandi odiatori hanno se stessi come bersaglio. Si ammalano di odio. Puntano la pistola contro qualcuno per non puntarla contro se stessi”.

 

Intermezzo dissacrante (ma non troppo).

Dopo aver infilato diciotto rifiuti di numero da altrettante case editrici, John Niven (non, peraltro, una penna qualsiasi: ma al tempo già uno scrittore con un paio di libri e un adattamento per il cinema di notevole successo al suo attivo) firma infine il contratto per il suo romanzo con la diciannovesima.
Scherzare va bene, ma farlo con il sacro può anche significare costruirsi il proprio pezzetto di Purgatorio in vita. Il 2011, però, è infine l’anno di The second coming, tradotto e pubblicato da Einaudi nel 2012 con il titolo di A volte ritorno.

Niven è uno che ha fegato: prende una storia che tutti conoscono (il Vangelo), di finale tragico e noto (Golgota e risurrezione al seguito), e si inventa una cosa che, se non è nuova quanto alla rivisitazione della forma (da Jesus Christ Superstar a Brian di Nazareth), lo è di sicuro nei modi in cui fa passare i suoi contenuti.

Il punto di partenza è lineare, e paradossale: nel mezzo del Rinascimento, Dio decide che sulla terra le cose stanno andando bene; l’uomo scopre un continente ogni due per tre, scrive dipinge scolpisce cose meravigliose: è il momento di prendersi una pausa. Cioè, andare a pescare trote, che è una delle attività di relax che Dio predilige. Quando rientra in sede (è passata meno di una settimana, ma in termini umani fanno cinque secoli), alla riunione di aggiornamento con i suoi amministratori delegati di fiducia (Pietro, Giovanni e Matteo – sì, proprio quelli) scopre che il suo unico comandamento, Fate i bravi!, non è stato esattamente seguito alla lettera. Il rapporto dettagliato, comprensivo di guerre mondiali, genocidi, intolleranze, violenze e follie di varia natura gli provoca un attacco d’ira col botto: dopo aver promesso di prendere a calci in culo Mosè e aver ventilato una distruzione del pianeta a scopo di profilassi e ricostruzione, Dio decide che l’unica è rimandare suo Figlio sulla terra.

Ora: se Gesù tornasse, che tipo di ultimo potrebbe essere? Cosa gli succederebbe nel suo confronto con l’umanità, duemila anni dopo e visti i precedenti? E, soprattutto, perché dovrebbe abbandonare il Paradiso, in cui beatamente si occupa di tutte quelle cose che normalmente si fanno in Paradiso – ovvero: sesso, droga e rock and roll?
Insomma: per mollare un duetto con Jimi Hendrix ce ne vuole, ma John Niven non sbaglia un colpo. E da quando Gesù, capellone con chitarra, ricomincia a camminare tra New York, Los Angeles e il Texas, e il suo seguito di spiantati ed esclusi di vario genere si ingrossa, la storia si fa molto, molto interessante.

Si ride, si misura la propria soglia di scandalo, ci si immalinconisce, si piange e ci si arrabbia pure: senza smettere mai di riflettere.

A volte ritorno è uno dei più temerari braccio di ferro tra linguaggio dissacrante, satirico, fulmineamente sboccato e il mondo del religioso sacro. La quantità di parolacce e battute irriverenti è pari solo all’intelligenza con cui il gioco narrativo viene condotto. Il risultato è un libro che fa pensare, e molto, a quanto l’umanità, pur dotata di tutti i migliori strumenti e le migliori intenzioni, sia in grado di essere profondamente disumana, assurda, e, in ultima analisi, mediaticamente autodistruttiva.

 

Il sacro, donna.

Mariapia Veladiano ha studiato teologia, si è laureata, ma non ha mai scritto una riga da teologa. Quando, dopo anni di ricerca e domande e questioni, ha deciso di interpellare il mondo del sacro, ha scelto come voce il linguaggio del romanzo.
“Chiudere il cerchio sul Male, su perché il Male non se n’è andato dal mondo, per me non è possibile: è più forte l’idea di una ricerca, di un finale sospeso” afferma l’autrice.
Così nasce Lei (Guanda, 2017): un romanzo che indaga la parte di mezzo, quello di cui la teodicea non si è occupata in tutti questi secoli.

Della Madonna, in effetti, sappiamo il prima (l’angelo, l’Annunciazione) e il poi (il bambino già nato, la fuga in Egitto). Lo scarto della focalizzazione che punta il suo occhio di bue narrativo e teologico sulla storia di Gesù che cresce, predica, muore, è pressoché immediato.
Dopo, per Maria, fatti salvi pietà e affidamento a Giovanni, è subito finale e Assunzione.

Ma del corpo – dei corpi -, ovvero del legame umano, della bambina che ha dovuto imparare ad essere mamma, del non sapere chi è il figlio che ha generato, del domandarsi se ha abbastanza, se gli sta dando abbastanza, se mangia abbastanza, non c’è traccia nella narrazione evangelica.
Ed è qui che Mariapia Veladiano ha trovato spazio per interrogarsi e creare il suo personaggio.
La voce è semplice, limpida, profondamente umana.

Il senso della storia – di questa storia?

Il fatto che l’amore sia infine più grande dei nostri giudizi; il fatto che l’umanità abbia saputo salvarsi ogni volta che ha saputo guardare la vita non dal proprio preconcetto, ma senza giudicare, è nelle convinzioni dell’autrice.

Che venga da una donna; che venga da varie donne (come Laura Pariani, che inaugura con Di ferro e d’acciaio la nuova collana di NNEditore, con la storia della ricerca che una madre fa di un figlio scomparso, come una Via Crucis al femminile ambientata in un Nord Italia inquietante e distopico) questa riflessione sul sacro, sul corpo, sulla necessità di vedere in modo diverso ciò che, pur invisibile, accompagna da sempre la storia dell’uomo è un sintomo interessante di una necessità, di uno scarto, di una vitalità.

Che sia di nuovo la letteratura il campo che da questo punto di vista femminile apre sul sacro nuove prospettive al sentire, che svela un movimento profondo forte – che forse potrà aiutare a porsi nuove domande e a trovare senso – è un pensiero, in fondo, non peregrino.

Il sacro e il dubbio. Qualcosa, in fondo, che non ci ha mai abbandonato.

Non tutti i giorni sono speciali alla stessa maniera.
C’è, per esempio, una certa malinconia non sempre dicibile nell’affrontare la fine dell’anno perché, per quanto la si rappresenti con tutti i crismi, anche quelli più spinti, della laicità, il termine che è nella conclusione di un ciclo, nel cambio di un numero nel calendario, nel congedo dai mesi passati impone una sua riflessione.
Sono giorni di misura, di limite: la terra dell’antico Giano, il dio dalla doppia faccia, tempo di fine e di rinascita. Un tempo che, anche a non volerlo, spinge a galla la questione della sacralità.

A condurre una riflessione potente, a tratti abissale, angosciosa fino all’estremo ma saldamente (quasi crudelmente) lucida sul tema della fine del tempo (del tempo che ci rende coscienti di esistere) è Giulio Mozzi; in Favole del morire edito da Laurana nel 2015 un corpo composito di invocazioni, lacerti teatrali, sequenze e contrasti, comiche e grottesche, mette in piedi un poliedro di domande scaraventate nel mondo direttamente dal sostrato più antico e inquieto della coscienza umana. Riannodando i fili di un tema – quello del dubbio, del senso, del perché – che emerge in molta della sua produzione, lo scrittore rielabora materia mistica, mette in moto bestiari contemporanei che riecheggiano antenati medievali passandoli alla lente del microscopio, scende ad ascoltare i borbottii delle devozioni popolari, scoperchia vuoti, meccaniche umane, deliri. Multiforme, inquieto, poetico, tragico,  Giulio Mozzi punta al cuore del sacro con una freccia di acutissimo filo, e in una frase frantuma il diaframma che separa fede e dubbio: “Questa è la speranza: un’immaginazione”.