Ricky Buffonini & Josafat Vagni: due artisti a confronto

In Teatro

Intervista agli emergenti (ancora per poco) Riccardo Buffonini e Josafat Vagni: sono loro il nuovo volto del teatro, oggi? Probabile. Li troviamo in scena all’Elfo e al Piccolo: vedere per credere…

Uno dei due sa di essere “sempre curioso e innamorato”, l’altro si definisce “clamorosamente affamato di vita e buono”. A molti spettatori sarà già capitato di squadrare sul palcoscenico il loro volto bello e sorprendente. Il primo è di Riccardo Buffonini, che fino al 12 novembre sarà sulle scene dell’Elfo in Atti Osceni – I tre processi di Oscar Wilde di Moisés Kaufman; il secondo di Josafat Vagni, fino a domenica al Piccolo Teatro Grassi in Emilia, la tragicommedia di Claudio Tolcachir. Due vicende teatrali lontane per ambientazione ed epoca, senza grandi disaccordi tematici e con un filo conduttore psicodrammatico molto intenso, di chi si nasconde in nome di un amore più grande e di chi invece ne dichiara al mondo uno proibito. Due giovani voci che si raccontano in un’intervista che svela la propria preparazione scenica e uno sconfinato fascino di emotività attoriale.

Ricky, in Atti Osceni di Kaufman sei un giovanissimo Lord Alfred Douglas. Come ti sei preparato per questo ruolo?
Quando ho saputo da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia che avrei interpretato questo ruolo, ho ordinato l’opera omnia di Wilde e di Douglas e mi sono informato con grande curiosità su tutta la loro vita. Bosie era un poeta, uraniano per la precisione, pertanto mi sono letto tutti i suoi versi per capire la sua sensibilità, la sua weltanschauung e la visione che aveva della vita in generale. Essendo un personaggio realmente esistito, a livello pratico ho avuto a disposizione moltissimo materiale, anche se all’inizio ero più affezionato a Wilde. Sono partito dallo sfogo emozionale del De profundis, per poi passare alla sua autobiografia, affidandomi alle trascrizioni originali che Kaufman ha messo nel testo. Questo è stato il vero processo di preparazione iniziale. In seguito ho letto molte biografie su Bosie; al di là delle malelingue, ho cercato di captare quel quid in più in quell’adolescente impetuoso, sfrontato e che pensava all’epoca di essere intoccabile, mettendo in risalto le incertezze, la fragilità e la spocchia impetuosità di chi si approccia all’amore con tutta la voglia di vivere. Certamente non mi sono limitato a immaginare solo un ‘diavoletto’ che ha scatenato la scintilla della disastrosa caduta psichica e vitale di Oscar Wilde, ma anzi ho preferito capire le basi del rapporto tormentatissimo con il padre, Lord Queensberry, e con una società che non accettava quello che erano e quello che era giusto per loro essere.

Bosie era un ragazzo particolarmente frivolo e lunatico, ma al di là del suo fascino, perché Wilde se ne innamorò secondo te?
Secondo me perché Oscar rivedeva in lui la perfezione fisica e richiedeva al suo fianco una figura che incarnasse un certo ideale dal punto di vista puramente sociale. Il giovane aristocratico con un carattere deciso, o perlomeno capace di accaparrarsi ciò che desiderava ardentemente. Wilde ha amato proprio questo senso di travolgimento!

I am the love that dare not speak its name. È il verso più famoso di Bosie, ma cos’è per te l’amore che non osa pronunciare il suo nome ai giorni nostri?
È quell’amore che oggi invece deve pronunciare il proprio nome e non deve avere tentennamenti nel farlo, anche se non è sempre facile. Soprattutto le nuove generazioni devono essere coscienti e fiere di dichiarare un legame che, come diceva Oscar, è bello e sano e non solo dal punto di vista intellettuale. È un rapporto umano meravigliosamente accettabile a dispetto dell’indifferenza e delle critiche dei più.

Prima di entrare in scena? Sei agitato?
La paura c’è sempre, e meno male! Non si sa mai quello che può succedere in scena ogni volta. Ogni replica è unica e può succedere realmente di tutto, da una distrazione, fino al più completo divertimento. È un gioco col caso. C’è sempre una tensione e un’agitazione che mi fa sentire come un leone che vuole essere liberato dalla gabbia. È questa la mia linfa vitale!

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Josafat, in questi giorni ti troviamo al Piccolo a fianco a una meravigliosa Giulia Lazzarini. Com’è stato prepararsi e com’è lavorare insieme a lei?
Giulia Lazzarini è un fenomeno! Perdona il collegamento calcistico, ma è come giocare a pallone con Maradona. Al suo fianco si sente una grandissima responsabilità, perché per me è una donna molto forte, oltre che essere un’attrice eccezionale. Lavorando con lei si avverte un livello di profonda empatia con il personaggio, qualsiasi esso sia, quindi di conseguenza si è spronati a fare sempre di più. Come se non bastasse vicino a lei ci sono altri tre fenomeni: Pia Lanciotti, Sergio Romano, Paolo Mazzarelli. Sono convinto che potrebbero fare un monologo di tre ore e mezza, tenendo ancorato per tutto il tempo gli spettatori alla sedia. È un’esperienza enorme, fatta da persone con grandi capacità tecniche e soprattutto umane.

(Josafat Vagni, secondo da destra, foto di Achille Le Pera)

Tu interpreti Leo, un ragazzo turbato e turbolento, seppur maturo e quasi adulto al contempo. Come ti senti a vestire i suoi panni?
È un esercizio di grandissima concentrazione e di grande affidamento. Sulla scena ho stabilito dei rapporti molto potenti basati sull’analisi del testo che ci ha fatto fare Claudio (Tolcachir). Comunque sia, Leo è un ragazzo schiacciato fra due età, la sua, cioè diciotto/vent’anni, con la voglia di uscire, di rendersi indipendente e l’età che stanno vivendo i suoi genitori. Walter è un uomo che non ha mai avuto un figlio e che ora ha trovato Leo, ma lui non è più un bambino. Questo attrito matura piano piano, perché Leo è veramente riconoscente e innamorato della figura paterna che Walter gli ha offerto. Il gioco e la grande complicità che ci sono tra loro rischiano di rompersi in continuazione, data la presa di consapevolezza del personaggio che interpreto.

Nella pellicola di Silvestrini, Come non detto (2012), hai interpretato Mattia, un ragazzo che teme di svelare la sua omosessualità, in Emilia si scopre che Leo ha una strana passione gerontofila. Nonostante le radicate differenze, che cosa hanno in comune Mattia e Leo?
Sicuramente sono due ragazzi che nascondono un pezzo di loro stessi. Mattia lo fa per tornaconto personale e anche perché è bugiardo, e lo è per protezione di un’identità che lui sente minata da una società che non lo accetta. Mattia non è costretto, ma sceglie di mentire fino a quando le responsabilità non lo spingono a rivelarsi. Leo invece mente perché è convinto che in questo modo lui possa trovare un nucleo familiare che non mai avuto davvero ed è convinto che solo quel tipo di realtà possa poi portarlo ad avere realmente una famiglia. Ovviamente non paga nessuna di queste due menzogne…

Al teatro Argentina a Roma hai recitato in “Ragazzi di vita” di Pasolini, con la regia di Massimo Popolizio. Sappiamo che nel 2019 ci sarà anche un debutto milanese che molti attendono con ansia. Ma i ragazzi di vita, oggi, chi sono per te?
La periferia pasoliniana di oggi sono dei quartieri molto in voga a Roma, è il luogo dei hipster romani per intenderci. Le periferie si sono allargate molto di più e le macro aree delle città si sono estese. Anche io forse sono stato un ragazzo di vita in passato, salvato però da mia nonna quando mi veniva a prendere dai campetti dove giocavo da bambino. I nuovi ragazzi di vita non so se esistano oggi, anche se alcuni film ne hanno parlato, mi viene in mente Il più grande sogno di Michele Vanucci, per esempio. La periferia non è altro che qualcosa di diverso e che si vuole dimenticare, ma che infine arriva sempre ad affascinare il centro di una città. In quell’enorme alone e nuvola di povertà e di scapestrati, di cui parlava Pasolini, là è davvero vita.

Hai qualche rito prima di entrare in scena?
Sinceramente non ho dei riti particolari: mi libero di ogni orpello che possa ricondurre a me ed entro in camerino, l’anticamera del personaggio. In questi giorni però cerco semplicemente e molto umilmente di “andare a prendere Leo a scuola”. Questo è ciò che penso: lo “aspetto fuori da scuola”. Lo attendo con pazienza perché bisogna muoversi a piccoli passi quando sai che c’è un personaggio che ti darà un enorme dolore emozionale nel giro di un’ora e mezza e non esiste una maniera fuggire. Io ringrazio molto Claudio perché ho avuto la possibilità di lavorare su un personaggio che non mi fa scappare dalla verità.

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