Che notte quella notte! I Queen all’Hammersmith Odeon

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24 dicembre 1975: per gli appassionati di musica una data storica. Di quelle che non si dimenticano. I Queen sbarcano nella celebre sala londinese per un concerto che resterà nella storia. Il 16, 17, 18 maggio “A night in Bohemia”, che fu trasmesso in diretta dalla Bbc, torna, ma nei cinema

Approda nelle sale cinematografiche per tre giorni, dal 16 al 18 maggio, “A night in Bohemia”, il concerto che i Queen tennero il 24 dicembre 1975 all’Hammersmith Odeon, tempio londinese del rock. Il live act della vigilia di Natale, che allora venne trasmesso in diretta dalla Bbc, è considerato uno dei loro più belli, e il chitarrista della band, Brian May, aveva annunciato già nel 2009 di volerlo restaurare e remasterizzare. Aveva ragione, perché la leggenda dei Queen parte da questo concerto.

Meglio ancora, parte dal loro quarto album, A night at the Opera come il celebre film dei Fratelli Marx (a loro si sarebbero ispirati anche l’album e il tour successivo, A day at the races del 1976) che proprio in quel 1975 li lancia ai vertici delle classifiche mondiali e fa di Bohemian rhapsody, la canzone che traina l’album, il singolo inglese più venduto di sempre.

Prima di allora, i Queen avevano alle spalle quattro anni di attività con quel nome, più qualche prova giovanile in altre formazioni (Ibex, Wreckage, Smile) delle quali non è rimasta traccia o quasi. Il nome furbo e il logo paraculo, una vistosissima Q rossa che reca all’interno una corona, circondata da leoni rampanti, fate bianche, un granchio e un anello di fiamme, e sormontata da una fenice ad ali spiegate, sono del 1971 e li inventa tutti e due Freddie Mercury, diplomato in design all’Ealing Art College. «È solo un nome, ma è molto regale e sembra splendido. È un nome forte, molto universale e immediato. Aveva un sacco di potenziale visivo ed era aperto a ogni tipo di interpretazione. Ero certamente consapevole delle connotazioni gay, ma quello era solo uno degli aspetti».

Freddie Mercury è un nom de plume. Il nome vero, quello di Farookh Bulsara nato nel 1946 a Zanzibar da due indiani parsi del Gujarat di religione zoaroastriana, padre che lavora alla Segreteria di Stato inglese per le colonie e lo fa studiare (anche pianoforte) lontano da casa in college indiani, non è adatto per una rockstar, il multiculti non è ancora di moda.
Farookh è un coloniale di belle speranze, Freddie è un inglese estroverso che mira in alto.
Il nome e il logo, soprattutto il logo, oltre che una furbata sono una dichiarazione d’intenti: una torta multistrato che contiene tutto e il contrario di tutto.

Sono hard, nelle prove iniziali, i Queen così alieni all’apparenza e così middle class nella sostanza, che vedono alla chitarra Brian May laureato in fisica con un dottorato in astronomia, alla batteria il biologo Roger Taylor e al basso l’ingegnere elettronico John Deacon. Hard nella musica, glam sul palco come il coevo David Bowie (negli ’80 duetteranno con lui in Under pressure) e come i T. Rex di Marc Bolan: tutine estrose, raso e lurex, zeppe, occhi bistrati, unghie laccate. Non si tratterranno a lungo né nei paraggi del rock muscolare in procinto di virare verso lo heavy metal (anche se un approccio hard è rintracciabile in molta della loro produzione, si ascoltino per esempio One vision e Headlong) né tra i fiori del male del glam rock, anche se l’attitudine teatrale di quelle origini non li abbandonerà mai. Un po’ Led Zeppelin, un po’ Mott The Hoople (quelli di All the young dudes di Bowie, ai quali fanno da spalla nel 1974) negli anni dell’apprendistato, i primi successi arrivano con Seven seas of rye e Killer queen, secondo nella hit parade inglese.

Poi, nel 1975, il botto. Dell’album si è detto, della canzone Bohemian rhapsody che inaugura una delle mode più kitsch degli annali rock, il crossover lirico che porterà ai raduni di Pavarotti & friends e ai suoi imbarazzanti duetti con Zucchero (Miserere) e con gli U2 (Miss Sarajevo), resta da aggiungere che alimenta una piccola mitologia da Guinness dei primati: tre settimane di lavoro per registrarla, una soltanto per incidere e sovrincidere ripetutamente la parte vocale di Freddie. L’album dei miracoli comanda un tour mondiale altrettanto trionfale: 77 date, esordio a Liverpool il 14 novembre 1975, conclusione a Brisbane in Australia il 22 aprile 1978. Nella scaletta del tour 22 brani 22, si parte con Now I’m here, settima la rapsodia boema che viene ripresa durante il concerto, gran finale con Jailhouse rock di Presley (Elvis è una delle mille fonti di ispirazione dell’eclettico Freddie Mercury, si ascolti la rockabilly e gradevolissima Crazy little thing called love) e, udite udite, God save the Queen.

Sì, proprio l’inno nazionale inglese, con sua Maestà oggetto di venerazione pop incondizionata, senza i precedenti sberleffi dei Beatles (“Sua Maestà è una ragazza carina ma volubile, un giorno la farò mia”, Her Majesty che chiude Abbey Road) e senza il posteriore assalto all’arma bianca di Sid Vicious (“Dio salvi la regina, lei non è un essere umano, non c’è futuro nel sogno dell’Inghilterra”, God save the Queen dei Sex Pistols). Nel 1977, durante il Giubileo di Elisabetta II, i Queen faranno di meglio o di peggio, questione di punti di vista: montando a quindici metri dal palco tra fumi e raggi laser, durante i concerti a Earl’s Court del 6 e 7 giugno, una corona alta otto metri, larga diciotto e pesante più di due tonnellate.

Perché i Queen, si sarà capito dall’antipasto di Bohemian rhapsody, in quel 1975 che vedrete tra qualche giorno al cinema hanno già deciso che cosa faranno da grandi: non i nipotini dei Deep Purple, non i fratelli minori di David Bowie, ma puramente e semplicemente i Pooh d’Inghilterra, i Pooh globali di un mondo che si avvia verso la globalizzazione.

Così alla base hard si aggiunge una vena magniloquente e pomposa, un pop-rock da stadio che si concede al turgore melodico, all’enfasi declamatoria, all’ingorgo melò, come Somebody to love, We are the champions e Who wants to live forever, fortunata colonna sonora di Highlander, dimostrano in maniera esemplare. Un pop insaporito da aromi che a gran parte della critica fanno storcere il naso, deliziando tuttavia un pubblico sempre più numeroso e festante (nel 1981 la loro prima raccolta di successi, Greatest hits, vende sei milioni di copie, superando il campione d’incassi inglese di sempre, Sgt. Pepper dei Beatles): scampoli di prog, perline di rock’n’roll leggero, spruzzate di vaudeville e music hall, tappeti di sintetizzatori, cori e coretti, immersioni spagnolesche, robusti innesti simil-operistici (l’atroce Barcelona, canzone e album, che il tenore leggero Freddie Mercury incide nel 1988 con la soprano Montserrat Caballé).

Tutto abbastanza kitsch, tutto molto “professionale”. Professionalità è un mantra di quegli anni di arrembante yuppismo, valido indifferentemente per cose ottime o pessime, purché impeccabilmente confezionate. E loro impeccabili lo sono davvero, con il protagonismo chitarristico di Brian May (ma provate ad ascoltare il bassista John Deacon nella sua Another one bites the dust) e soprattutto con il carisma di Freddie Mercury, frontman tra i più grandi del rock a dispetto di tutto, voce potente e agile da quattro ottave di estensione, talento teatrale sfrontato ed energia da vendere, vero animale da palcoscenico. I loro concerti sono puro teatro e puro circo, disimpegnato ma vitalissimo, eccessivo ma solare, in grado di coinvolgere il pubblico e farlo sentire protagonista.

Il resto è storia, successo planetario che non li ha mai abbandonati, discese ardite (i concerti criticatissimi del 1984 a Sun City, vacanzificio sudafricano simbolo dell’apartheid) e clamorose risalite (gli smaglianti venti minuti al Live Aid del 1985, che per una volta metteranno d’accordo critica e pubblico), sino alla dolorosa fine della storia – o almeno della sua prima parte, quella maggiore – con la morte per Aids di Freddie Mercury nel 1991.

Non la mia musica, not my cup of tea, né allora né oggi. E tuttavia una musica con cui oggi mi sento di fare pace, perché non di rado il kitsch fa fagotto lasciando il posto alla pura piacevolezza pop. Da ascoltare e fischiettare senza troppa schifiltosità. C’era di meglio, allora. C’è stato di infinitamente peggio, allora e dopo.

Queen A night in Bohemia: il concerto allo Hammersmith Odeon (nei cinema dal 16 al 18 maggio)

Immagine di copertina: Queen @ Hammersmith Odeon © Douglas Puddifoot