Pretty Woman: vince ancora il fattore J.

In Cinema

Il 21 marzo il film che ha rivelato il talento di Julia Roberts compie 25 anni. Perché tanto successo anche oggi, tra i giovani? Cultweek lo spiega in 4 parole

Sesso, shopping e cambiamento

Perché Pretty Woman è un film così famoso? Sappiamo tutti che non è un capolavoro, eppure quando, dopo 25 anni, viene trasmesso in tv, la gente rimane ancora incollata, garantendo sempre ascolti enormi alle reti, superiori persino a quelli di una partita di Coppa della Juve.

Secondo lo storico del cinema David Thomson c’è una ragione precisa. Pretty Woman “è un film fondato su tre elementi molto interessanti nel sogno americano: il sesso, lo shopping e il cambiamento”.  Elementi che mi sembrano ben riconoscibili in tre precisi momenti del film e ai quali si aggiunge anche un altro un fattore, che chiamerei: Fattore J.

La storia la conoscete tutti. Un facoltoso businessman interpretato da Richard Gere, a Los Angeles per un grande affare, ingaggia una giovane prostituta incontrata per caso, Julia Roberts, per intrattenerlo durante la settimana che trascorrerà in città. Al termine della settimana, e dopo qualche, in verità minuscolo, tentennamento, l’happy ending  è assicurato e Pretty Woman, alias Vivian, alias la Roberts, riuscirà a coronare il suo sogno d’amore e far suo il Principe/Richard Gere.

Punto uno: il sesso

È la prima sera, Edward e Vivian sono insieme in albergo e sebbene non ci siano dubbi sulla professione svolta dalla ragazza, la stanchezza post lavorativa dell’uomo e la fanciullesca simpatia di Vivian mentre guarda in tv un telefilm in bianco e nero con Lucille Ball che pesta l’uva, ci hanno fatto per un attimo dimenticare tutto il resto. Ma improvvisamente, la svolta: questione di due sguardi e, sbam, vediamo la dolce fanciulla ritornare una professionista con una fellatio propinata allo stanco e tuttavia interessato Edward. In questo preciso momento l’attenzione del pubblico si risveglia, non solo per la performance, che dall’espressione estatica di Gere possiamo solo immaginare efficace. L’attenzione si risveglia soprattutto perché, bando alle ciance, qui irrompe il sesso. E non una cosetta sentimentale, ma il sesso sporco (per gli standard puritani), il sesso sesso. E capire improvvisamente che con quella bocca Vivian non sorride soltanto, turba lo spettatore oltre ogni dire.

Punto due: lo shopping

Che ve lo dico a fa’: c’è una bella ragazza con indosso un vestito orrendo, c’è una carta di credito Platinum e c’è Rodeo Drive (o via Condotti o via Montenapoleone, fate voi). Il sogno di ogni spendaccione compulsivo raggiunge l’acme nella scena in cui Vivian ed Edward vanno a far shopping. Anche in questa favola c’è una formula magica, che viene ripetuta più di “apriti sesamo” o “abracadabra”, ed è: “Vogliamo spendere una sfacciata somma di denaro. Anzi, spudorata”. Più forte dell’orgia del potere o di cibo e dell’orgia tout court, nel mondo moderno l’orgia degli acquisti soggioga l’immaginario umano fino a renderci tutti docili fantocci nelle mani del consumismo. Ma il twist geniale del film è quando Vivian, rivestita di tutto punto e piena di sacchetti, ripassa davanti al primo negozio dove hanno rifiutato di servirla e si prende la sua rivincita. È lo shopping che qui definisce l’identità della nostra eroina.

Punto tre: il cambiamento

Non c’è niente che incarni di più il sogno americano della possibilità di migliorare, di elevarsi. In Pretty Woman c’è un momento preciso in cui questo accade. Quando Edward dice a Vivian che la porterà a cena con il grande magnate a cui vuol soffiare l’azienda, la ragazza si rende conto di non essere all’altezza dell’occasione e si fa aiutare dal direttore dell’albergo, l’ottimo Hector Helizondo, il quale non solo le risolve il problema di quale abito indossare, ma le insegna anche i segreti della buona educazione a tavola. È la favola di Pigmalione con in più il room service. Quando più tardi Edward incontra Vivian al bar, non sa che la bellissima ragazza che gli si para davanti non ha solo cambiato abito, ma ha cambiato pelle. Pericolosissimo.

Il fattore J

Quando viene scritturata per Pretty Woman, Julia Roberts ha 23 anni e solo due film alle spalle, Mystic Pizza e Fiori d’acciaio. La vera star della pellicola è Richard Gere. Ma basta il primo sorriso di Julia per spazzar via ogni dubbio. Con Pretty Woman nasce una stella. E ad ogni passaggio televisivo non c’è niente di più eccitante che assistere a questo fenomeno unico, paragonabile forse a quando l’astronomo Edmond Halley predisse il ritorno della sua cometa nel 1758.

Francesca Filiasi

Parlarne bene è lesa maestà virile?

Alla vigilia del 25mo compleanno di una delle love story hollywoodiane più sospirate di sempre, ho l’infausta idea di chiedere a parenti e conoscenti un commento, un ricordo, o semplicemente un riassunto dell’ennesima pietra miliare della cinematografia mondiale che a quanto pare mi sono perso per strada. Sì, lo confesso. Ho 32 anni e non ho mai visto Pretty Woman. L’ho sempre rimandato, un po’ come le visite al Cenacolo. Dopotutto, le pietre miliari si chiamano così perché stanno lì, mica scappano, e va a finire che le trovi sugli scaffali a 9 euro e 90, a rallegrare i compratori compulsivi di dvd in offerta nelle serate d’agosto in città.

Gli amici e Pretty Woman, dunque. L’esordio non è dei più incoraggianti: la platea di sesso maschile parte in quarta con epiteti irriferibili per “la Giuliona Roberts in mini e stivaletto”, o con paragoni un po’ spiazzanti (“è la brutta copia del telefilm La Tata”), salvo poi correggere il tiro virando su facili ironie e parallelismi con le recenti vicende giudiziarie di un noto ex capo di stato nostrano. Quella di sesso femminile, invece, attacca decantando le cinquanta sfumature di grigio del riccone dal cuore d’oro, per poi concludere, sospirando rapita o vergognandosene un po’, che le battute della coppia le sa ancora tutte a memoria.

Il guaio di noi nati negli anni ’80 è che nello stereotipo all’americana ci siamo letteralmente cresciuti: così, mentre le mie coetanee probabilmente (anche se ora negano con forza) trascorrevano serate accoccolate sul divano a invidiare la sfrontatezza di Julia Roberts e a sognare la redenzione di principi azzurro-brizzolati, io e i miei compagni di classe imparavamo a memoria battute, pernacchie e risatine di capolavori come Il Principe Cerca Moglie, Animal House o Ricomincio da capo, con il risultato che qualsiasi film con Bill Murray rappresenta ancora oggi il nostro apice della commedia romantica.

Ma basta approfondire appena il discorso, per arrivare all’inaspettata unanimità: «è un bel film, se ti piace il genere», che per un cinefilo è un po’ come dire che quella ragazza «è un tipo». Davanti alla mia faccia perplessa, subito interviene lo specialista, constatando forse il fallimento della linea diplomatica: «Ma sì, è la classica storia con climax da commedia romantica, incontro-innamoramento-equivoco-tragedia-risoluzione: si conoscono, si piacciono, si autoconvincono che la cosa non può funzionare, poi ci pensano bene e capiscono di essere innamorati».

Beati loro. Io invece capisco che è ora di colmare la lacuna e comprare il dvd, anche se lì a due passi, sullo stesso ripiano, l’edizione deluxe di Grosso Guaio a Chinatown mi chiama a gran voce e per un attimo la mia fede vacilla. “Tanto poi lo regalo a mia mamma”, penso. Illuso. La verità è che mi piace il genere, e mi piace il film. Però li capisco, i miei amici, con la loro virile dignità da preservare: il loro giudizio odora forte di lesa maestà.

Non solo Pretty Woman è una Cenerentola al contrario, ma il sovvertimento dello stereotipo fiabesco va ben oltre il copione: Julia Roberts è fin dall’incipit (cosa inusuale per una commedia oggi, figuriamoci allora) la vera padrona di casa, relegando il conquistatore conquistato a bella presenza di supporto, anziché l’opposto. La sua interpretazione, più che un bacio, è un salutare scossone a risvegliare il bell’addormentato Richard Gere, fascinoso quanto monoespressivo, e tutto il film con lui. Il suo sorriso a 32 denti è la rivincita su generazioni di soubrette da grande schermo, la rottura dell’assioma brutto-comico, e in definitiva la dimostrazione che al talento, quello vero, va sempre lasciato il passo, da qualunque parte arrivi e dovunque voglia andare.

Stefano Benedetti

Pretty Woman, di Garry Marshall con Julia Roberts, Richard Gere, Ralph Bellamy