Da poeta a poeta #7: Gilda Policastro legge Zanzotto

In Letteratura

Ecco la settima puntata della nostra rubrica “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Oggi Gilda Policastro legge un testo di Andrea Zanzotto

Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, munchhausen.

(A. Zanzotto, Al mondo, da La beltà)

 

Zanzotto pubblica questa poesia nella raccolta La beltà del ’68: per casualità più che causalità, nell’anno simbolo della contestazione e delle utopie, dei movimenti e delle rivolte. Il testo è apparentemente leggero, quasi canzonettistico (tant’è che il gruppo dei La Crus lo ha messo in musica nell’album Infinite possibilità, del 2005). Si tratta di un’apostrofe al mondo, che viene leopardianamente invitato a farsi innanzitutto interlocutore della voce che gli parla. Se la luna era un’icona di protesta per l’inconciliabilità fra io-lirico desiderante e vita costitutivamente infelice, il mondo zanzottiano è una sorta di complice e come tale convocato perché riceva una serie di istruzioni sul comportamento da tenere in una imprecisata circostanza, che si viene definendo come l’esistenza tout court. «Sii [e] buono» si dice solitamente a un bambino (come il «su bravo» centrale o il  «su, bello, su» finale), ma la prima condizione cui questa richiesta di docilità dovrebbe piegarsi è proprio l’esistere in quanto tale, dopo il quale i predicati si vanno precisando come un ««accartocciarsi», un cadere, un morire (anzi, un  «super-cadere» e un «super-morire»), quindi alla fine ciò che si attribuisce a questa figura di mondo è il contrario esatto dell’esistenza: la progressiva e definitiva estinzione. Il problema è quello tipicamente novecentesco della frattura tra io e mondo, ed ecco che se dapprima può apparire come complice o monello, il mondo viene poi frontalmente accusato di non essere conforme all’io, anzi, di essere «un io male sbozzolato» (attributo che riporta di nuovo a Leopardi, alla temperie scanzonata delle Operette, in particolare al dialogo fra Ercole e Atlante che si palleggiano il pianeta o al Folletto e lo Gnomo che si svegliano in una terra deserta di uomini) e di più: il mondo è invadente, ingombrante, dovrebbe farsi da parte. Fin qua l’andamento canzonettistico si preserva e anche se le restrizioni comminate al mondo sembrano evidenziare un’inimicizia, il tono rimane affabile e ironico. Sul finale il testo si fa gnomico e le due azioni imperative in clausola («il congegno abbia gioco»; «su münchhausen») rivelano un intento diverso da quello che la cadenza giocosa ha suggerito fino a quel momento.

Che cosa vuole dire, il poeta di Al mondo?

Per l’interpretazione di questo testo, si può partire (contravvenendo alla pratica solitamente lineare del commento) dal finale, da quell’evocazione di  Münchhausen che si tirò fuori dalla palude sollevandosi per i suoi stessi capelli. Come farà però il mondo a incarnarsi nel leggendario barone o a emularlo? Come può il mondo tirarsi per i capelli? A cosa può essere assimilato l’invito conclusivo? Intanto è una prospettiva di salvezza, rispetto alle ipotesi di caduta, morte, accartocciarsi, annichilamento. Ma questa salvezza non starà, poi, nelle stesse azioni che il mondo è stato invitato a compiere, a starsene buono, a non esistere? Quindi, giusta l’ipotesi che il mondo sia in contrasto con l’io, la sopravvivenza dell’io segnerà la fine del mondo (e viceversa). A questo punto possiamo procedere in due modi: o prendere il poeta alla lettera e pensare che l’io si salva solo a condizione di non tener conto della condizione del mondo (e proseguendo sulla via del leopardismo dovremmo inferirne che, al contrario di quanto accade nella Natura e l’Islandese, qui è l’esistente a prevalere sulle dinamiche fatali dell’esistenza) oppure riandare, come abbiamo fatto nell’avvio del commento, all’anno in cui Al mondo si pubblica. La poesia sta cambiando da quasi un decennio, non è più tempo di oscurità ed ermetismi, ma di dirompente anarchia: sono usciti i Novissimi, Montale ha scritto Poesia inclusiva. Allora perché dichiarare guerra al mondo in nome dell’io? Nel ’62 Zanzotto su «Comunità» aveva stroncato i Novissimi con una delle recensioni più ostiche e ostili che si siano mai lette su quell’antologia. Quel che si capiva è che i  cinque neoavanguardisti erano invitati a uscire dalla pagina e a rimettersi in gioco dentro la crisi, una crisi da viversi come fenomeno di storia più che di linguaggio (tesi a cui Sanguineti avrebbe obiettato che la storia è nel linguaggio, nella sua evoluzione e autocoscienza). La preghiera al mondo è allora un paradosso ma anche una rivendicazione d’autonomia: al mondo si chiede di provare a esistere buonamente perché dell’io c’è ancora bisogno. Soprattutto nell’ipotesi in cui quel mondo «così fatturato» si possa effettivamente identificare con la palude da cui all’uomo non resta che uscire tirandosi per i capelli, cioè guardandosi da fuori pur essendovi invischiato e cominciando a esistere buonamente e da lato, da lato, pure lui.

 

[Guarda qui tutti gli interventi della rubrica e qui tutti i lavori di Carlotta Broglio]

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