Quarant’anni ben cantati

In Musica

Patti Smith, la leggendaria cantante-potessa americana, ha festeggiato a Villa Arconati Horses, l’album pietra miliare della musica punk uscito nel 1975

I capelli sono diventati d’argento e il timbro da ragazzina ha lasciato il posto a una voce più aspra. I suoi occhi non perdono tuttavia lo scintillio e non appena i musicisti accennano le note di Gloria: in excelsis deo Patti Smith è già pronta a mostrare tutta la sua abituale energia, come se non fosse passato un giorno dal suo esordio sulla scena.

Il sole sta tramontando, c’è una bella luce calda e il pubblico si stringe attorno al palco, allestito nell’elegante giardino di Villa Arconati (Bollate), uno sfondo suggestivo e adatto alla teatralità dei brani della cantautrice americana. Sono passati 40 anni dalla pubblicazione del suo disco d’esordio, Horses, ma i brani conservano uno smalto attuale sia nei testi sia nella realizzazione.

La Smith interpreta l’intero album, come una sorta di ritorno alle origini, si lascia trasportare dalle parti recitative, dalla toccante Redondo Beach, con il suo pigro ritmo reggae e il testo malinconico, fino alla più cruda Free money, che parte con il piano sognante per poi svilupparsi in un crescendo frenetico giocato tutto sui tom della batteria, durante i quali la cantante prende il microfono con forza, tanto da far cadere l’asta, e si scatena accompagnata dagli applausi del pubblico.

La memoria del passato emerge di pari passo con le tracce di Horses proposte dall’artista.

Non solo viene citato Jim Morrison, che ha ispirato la composizione di Break it up, in cui la chitarra solista produce una sorta di controcanto accorato alla voce, ma viene fatto anche il nome di Ornette Coleman, il padre del free jazz recentemente mancato, al quale Patti dedica Beneath the Southern Cross, ballad recitativa tutta giocata sulla ripetitività dell’accordo di re maggiore.

Tra tutti, colpisce la sentita introduzione di Elegy, brano di chiusura dell’album celebrato. Per l’esecuzione, il batterista si sposta al basso, la luce si fa viola, il fruscio delle foglie accompagna le parole della cantante: «questa è l’ultima canzone di Horses, è un piccolo brano che ho scritto in memoria di Jimi Hendrix. L’ho scritto 40 anni fa e molte cose accadono in 40 anni, abbiamo perso molti amici, molti affetti e sono sicura che ognuno qui ha perso qualcuno e lo mantiene vivo nel cuore e nella memoria: questo brano è per tutti loro».

Dopo questo momento di raccoglimento intimo, Patti Smith lascia spazio alla sua band che interpreta un piccolo omaggio ai Velvet Underground, un medley di vivace sapore rock di It’s alright e I’m waiting for the man: alla chitarra troviamo l’immancabile Lenny Kaye, presente al fianco della cantante sin dai primi timidi reading di poesie nei club di New York. Chiudono la set list le celebri Because the night e People have the power e gli artisti escono di corsa per prepararsi al bis.

Quasi a titolo simbolico viene infine eseguita la cover di My Generation degli Who, bonus track della ristampa di Horses. La voce si fa sguaiata e graffiante mentre l’ironico inciso cita “I hope I’ll die before get old” (“Spero di morire prima di diventare vecchio”) a dimostrazione, ancora una volta, della giovinezza di spirito, del fascino ribelle e sgraziato della “sacerdotessa del rock”.

Patti Smith a Villa Arconati

Immagine di copertina di Vincenzo

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