La lunga giornata verso la notte di Riccardo III

In Teatro

Dopo il suo trionfante Riccardo III al Piccolo, ecco un’intervista esclusiva al regista dello spettacolo, Thomas Ostermeier: «il teatro di Shakespeare sembra scritto apposta per comunicare con la sala…»

Il crepuscolo dei potenti si fa spazio tra le due rose di Lancaster e York, oscuro game of thrones shakespeariano con sicari nascosti nella notte e battaglie dell’indomani, calato al Piccolo direttamente dalla Schaubühne di Berlino. È Thomas Ostermeier il trionfante ristrutturatore di questo Riccardo III punk-rock donato al Piccolo, o meglio dal Piccolo alla città per i settant’anni del teatro.

 

Costumi di oggi, scena verticale di Jan Pappelbaum che incombe su un’arena di sabbia, circo sanguinario a cui si accede attraverso un tappeto appeso sul fondo. Poi qualche gradino e si finisce in platea, con logico abbattimento della quarta parete, mai così evanescente come nelle arringhe al pubblico del protagonista. Il villain per eccellenza, deforme di aspetto e propositi, è interpretato da Lars Eidinger che, coperto di cinghie, sospende l’azione di continuo ammiccando al teatro intero: feroce, sarcastico, a volte anche nudo. Nel sonno il baratto tra un regno e un cavallo. Nel finale lo scontro con un esercito di allucinazioni. La morte è a testa in giù. Le ovazioni interminabili.

(foto di Paolo Pellegrin)

«Francamente sono sorpreso, in Italia non è andata sempre bene. Ma il pubblico del Piccolo conosce la storia del teatro, le grandi regie, la scrittura del palcoscenico. Del resto Strehler fu assistente di Brecht a Berlino: una tradizione europea soffia in questi luoghi mitici».

Perché fare Shakespeare?

«Mi pare evidente: è l’autore più grande, il più difficile».

Difficile come esigenze teatrali?

«Il più delle volte quando leggo Shakespeare non ne capisco il linguaggio, l’articolazione della trama, i rapporti tra i personaggi. L’unica soluzione è metterlo in scena. Solo così di colpo, in sala prove, inizio a cogliere tutti i riferimenti. E la sfida diventa un regalo fatto a me stesso».

Cosa ha capito di Riccardo?

«Che non bisogna cadere nella trappola di presentare un cattivo. Anzi, durante tutta la vicenda il personaggio di Riccardo interpreta il contrario di quello che è: fino alla fine finge di essere il migliore essere umano al mondo».

Sembra teatro nel teatro.

«Senz’altro è questo che mi interessa».

In effetti lo spettacolo è molto più politico che psicologico: direi che si percepisce più Brecht che Freud.

«Per me è un complimento, anche se durante le prove ho lavorato molto con gli attori sulle ragioni interne dei personaggi. D’altra parte la mia visione del mondo è innanzitutto politica, sempre più sociologica che psicologica».

Tranne che nel finale, in cui emerge tutta l’interiorità del protagonista.

«Nell’ultima scena diventa inevitabile il confronto di Riccardo con le sue angosce: non ha nemmeno più nemici, sono tutti morti. Così proprio lui diventa il grande nemico di se stesso».

E quindi la battaglia in solitudine.

«La traiettoria logica che ho seguito portava per forza a questo finale».

Ho trovato spiazzante il cambio di registro: di colpo la tragedia dopo tanta ironia.

«È una scelta che ha a che vedere con il mio gusto: lavoro molto sugli aspetti divertenti, anche ridicoli dei personaggi. Sarà per questo che mi circondo sempre di attori con un lato un po’ da buffone. Ma l’obiettivo che mi pongo è sempre più serio e profondo. Anzi direi che la mia visione della vita è oscura. E quando arriva la morte non si ride più».

Ma perché prima il pubblico deve ridere?

«Non è un obbligo, anche se in effetti tante scene divertenti sono inserite di proposito. Ma pensandoci bene il personaggio di Riccardo si iscrive in una tradizione di clown: oltre a essere grottesco fa da intermediario con il pubblico, come uno stand-up comedian».

Allora che cos’è il tragico?

«Il tragico incombe quando entrambe le parti in lotta hanno ragione».

Si spieghi meglio.

«A teatro la tragedia ha inizio con un conflitto profondo: tra due personaggi, due visioni del mondo, due destini. Il dolore sta nel non poter sapere chi ha davvero ragione».

Ha visto questo in Shakespeare?

«Direi piuttosto che è Shakespeare a vedere qualcosa del genere nei suoi lavori».

(foto di Arno Declair) 

In altri suoi spettacoli, come nel Gabbiano, si ritrova la stessa ricerca di comunicazione con il pubblico.

«Per me il significato del teatro sta tutto nel contatto con il pubblico»

È un contatto che può emergere nella stessa maniera in Shakespeare, in Čechov, in Ibsen?

«Niente affatto: è sempre differente. Ma forse con Shakespeare è più semplice instaurare un rapporto con il pubblico: il suo teatro sembra scritto apposta per comunicare con la sala. Solo bisogna trovare attori in grado di farlo: non tutti ne sono capaci».

Quanta improvvisazione c’era negli interventi di Eidinger?

«Non più del venti percento. Il resto lo stabiliamo insieme».

Quindi sono gli attori più che gli autori la materia prima del suo teatro?

«Direi che lo sono entrambi. Ma forse sono proprio gli attori i migliori amici degli autori. In un teatro ideale avremmo bisogno soltanto di grandi attori e di grandi autori in costante relazione tra loro. Il regista arriva dopo».

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