L’epopea dei desaparecidos

In Letteratura

Ni vivos ni muertos ci racconta la strategia del terrore in Messico, quella dello strapotere della criminalità organizzata collusa con lo Stato

Il viaggio di un migrante è sempre difficile, lo sanno i siriani che sono costretti a fuggire dal loro paese. Lo sanno bene – e forse anche di più – i migranti sudamericani la maggior parte dei quali non riesce a superare, in vita, il confine messicano. Sono consci del pericolo, eppure partire resta in ogni caso la scelta migliore (sempre che di scelta si possa parlare): «mi avevano detto che qui stuprano la gente e per sicurezza, per non prendere delle malattie, avevo un pacchetto di preservativi». Di questo e altri soprusi (dalla tortura, al rapimento, alla schiavitù, al lavoro forzato, al traffico di essere umani) parla Oscar Matinez ne La Bestia (che abbiamo già recensito qui) e anche Federico Mastrogiovanni nel suo bellissimo Ni vivos ni muertos.

A metà fra l’inchiesta e il reportage Mastrogiovanni documenta la strategia del terrore che si perpetra in Messico da ormai dieci anni e ha causato la sparizione di almeno 27.000 persone, senza contare i circa 40.000 casi di femminicidio e gli oltre 60.000 migranti centroamericani e sudamericani fatti sparire dalla criminalità organizzata collusa con le autorità locali. I numeri sono quella di una carneficina; sembrerebbe di essere in un film apocalittico, o in una zona quantomeno di guerra: «la sparizione forzata di persone è una delle strategie più efficaci per seminare terrore tra la popolazione. Insieme all’omicidio di massa, alla tortura o alle decapitazioni, è uno degli elementi più sicuri per fare in modo che la gente lasci le proprie case e le città dando luogo a ingenti migrazioni» (pag. 26) lasciando così liberi quei territori ricchi di gas, oro o che servono alle rotte del narcotraffico. In parole semplici: lo Stato consegna alle multinazionali dei territori che di fatto appartengono alla popolazione tenuta sotto controllo con il terrore.

Sembra la trama di un romanzo distopico, si stenta quasi a crederlo, ma ci viene raccontato con i silenzi, le palpitazioni, gli occhi di una madre il cui figlio è desaparecido senza motivo, con i documenti, con prove empiriche. È difficile non credere a tutto questo.

La forza di Ni vivos ni muertos sta nel mescolare le fonti esatte con le parole spaventose e piene di rabbia della gente, la reticenza delle vittime, la paura e lo sgomento dei testimoni. Nella stessa pagina troviamo il pianto di dolore di un padre, il linguaggio secco e preciso di un avvocato, lo sbotto aggressivo di uno studente. Il racconto procede con calma, Mastrogiovanni si sofferma sulla descrizione minuta dell’ambiente, degli stati d’animo, dell’atmosfera, ogni parola è pesata, ci sono silenzi, pause. Non sono infrequenti frasi come: «lo spazio che la circonda si immobilizza davanti a un dolore così profondo»(pag. 34) oppure: «Non c’è luna e le parole si mescolano con il ronzio costante delle zanzare nelle tenebre» (pag. 42) o ancora: «a Tapachula puoi conoscere davvero l’inferno. È una città che non ha anima» (pag. 44).

Quasi maniacale è l’attenzione allo spazio che spesso appare inquietante per il fatto stesso di ospitare una verbalizzazione dolorosa; attenzione che, d’altra parte, vuole mettere l’accento sullo spazio fisico lasciato vuoto dai desaparecidos. Per questo l’autore visita la casa di Alan, un ragazzo scomparso, descrive la sua camera nei minimi particolari, le foto, i vestiti lasciati sulla sedia. Vuole dare forma plastica all’assenza. Presentificarla.
E Assenza è il titolo di un capitolo messo proprio a metà del libro, una pausa forte. Un capitolo quasi lirico che procede per accumulazioni di quello che rappresenta l’assenza per queste persone che passano la vita ad aspettare, a cercare i propri desaparecidos. Si parla di «lutto eterno» (pag. 103), per dirla con le parole di una madre: «è come se uccidessero tuo figlio ogni giorno. Senza sapere se te l’hanno ucciso» (pag. 102).

Tutto questo serve a dar il tempo al lettore di metabolizzare un contenuto scomodo, difficile, incredibile. Osceno. Questa è una parola che ritorna spesso nella prosa di Mastrogiovanni, è l’attributo che meglio descrive questo stato disumano. Ed è osceno perché non se ne capisce il motivo: «non si spiegavano il perché di tanta violenza, di tanta crudeltà» o ancora: «Non capisco. Davvero, ancora non lo capisco» (pag. 68). Osceno perché è tale il comportamento di uno Stato che non può e non vuole indagare su queste sparizioni, che ne è spesso responsabile e, quando non lo è, copre le organizzazioni criminali e criminalizza le vittime. Con l’aiuto dei media (in un paese dove la libertà di stampa è sempre più una chimera e il giornalista è un mestiere più pericoloso di quello del soldato) le istituzioni mettono in atto una strategia che dipinge le vittime come i bad guys – arrivando a vere e proprie mistificazioni come la fucilazione, da parte dell’esercito, di ragazzi innocenti fatti passare per criminali giustiziati con l’aiuto di finte foto. L’infantilismo sociale fa poi sì che la gente si metta a dire: «l’hanno ucciso? Qualcosa avrà fatto», «chissà perché l’hanno fatto sparire». È il caso anche dei falsi-positivi: «forma di contro-insurrezione nata in Colombia per ottimizzare il numero di presunti narcotrafficanti o guerriglieri abbattuti in combattimento dalle forze governative» (pag. 74).

Questo processo di mistificazione trova il suo corrispettivo formale nella costruzione dell’ultimo capitolo dedicato alla sparizione di 43 studenti il 26 settembre scorso. È diviso in atti e scene anche se poi di rappresentazione teatrale ce n’è poca. Ma la ragione si palesa quasi subito: l’intento è quello di mostrare anche nella struttura il tentativo di costruzione di una finzione, di una vera e propria recita da parte delle istituzioni che cercano di nascondere il loro coinvolgimento nei fatti. Ed è chiaro quando Mastrogiovanni paragona un membro del governo ad un attore. A questo movimento ce n’è uno contrario da parte dell’autore che tenta di smontare questo castello di carte. mattone per mattone, opponendo prove inconfutabili. Dalla platea lancia un pomodoro agli attori: la loro recita non è piaciuta e quello che rimane è solo il marcio del pomodoro.

E alla fine Mastrogiovanni si alza e, dalla parte del pubblico, passa sul palco per raccontare la sua versione: «questo è il mio lavoro» dice in un passo del libro, «ascoltare e poi raccontare storie, racconti, esperienze, cronache» (pag. 40) e di storie è pieno Ni vivos ni muertos, che si lascia incredibilmente leggere tutto d’un fiato.

Quando si chiude il libro si resta con un forte senso di angoscia. Si inizia a respirare un’aria diversa, l’aria di quei delitti. La stessa aria stantia che c’era nella stanza di Hitler quando, con il grammofono che cantava Wagner, ideava il programma Nacht und Nebel per far sparire nel nulla tutti i suoi oppositori. Il parallelismo è chiaro. In definitiva Mastrogiovanni ci consegna un Messico che non è quello del sole e dei sombreros, ma quello della notte e della nebbia. Nacht und nebel, niemand gleich («notte e nebbia, non c’è più nessuno», R. Wagner, L’oro del Reno).

Federico Mastrogiovanni, Ni vivos ni muertos (DeriveApprodi, 2015, pp. 192, 17€)

Immagine di copertina: Agrupación de Familiares de Detenidos Desaparecidos

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