La doppia vita di Michael Fassbender, discografico carogna e cyborg omicida

In Cinema

L’attore tedesco si dimostra sempre più un assoluto protagonista del cinema d’oggi. Nel nuovo esperimento cine-musical-filosofico “Song to Song” di Terrence Malick, in ripresa rispetto alle sue ultime, poco riuscite opere, chiude il complicato triangolo che ruota intorno alla love story tra Ryan Gosling e Rooney Mara (nel cast anche Portman, Blanchett e Patti Smith), con chiare mire di dominio su tutto e tutti. Nell’ultimo capitolo della saga fantascientifica, dove va di nuovo in scena l’Ok Corral tra l’intrepida pilota (la biondina Katherine Waterston) e l’orrendo extraterrestre, è ancora il suo il personaggio più riuscito. Ma si rimpiangono sempre il mostro primigenio e Sigourney Weaver.

Faye sta insieme a BV, ma lo tradisce con Cook il manipolatore. Dopo che si sono lasciati i tre vivono altre storie, e alla fine i due scoprono il vero amore. Questa in sintesi la storia di Song to Song del mitico Terrence Malick che, dopo essersi centellinato realizzando solo quattro film in 32 anni, ha cambiato marcia e registro sfornandone cinque dal 2011. Sempre spiazzando, spesso deludendo. Non fa eccezione questa nuova prova, anche se, in realtà, il film è stato girato nel 2012, in contemporanea con Knight of Cups e molti interpreti compaiono in entrambi i film, salvo drastici tagli del montaggio infinito che hanno cancellato alcuni attori dalla versione definitiva.

La storia, tranne una breve escursione nella zona di Merida, in Messico, si svolge a Austin, capitale del Texas e della scena musicale statunitense, teatro di diversi festival musicali e non solo. I protagonisti ruotano infatti tutti attorno a questa dimensione artistica: Faye ha cominciato come centralinista da Cook, produttore, mentre BV è un cantante di successo. E molte scene sono “rubate” durante veri concerti, con protagonisti nei panni di loro stessi come Iggy Pop, Johnny Rotten, Red Hot Chili Pepper e soprattutto Patti Smith che riveste anche un vero e proprio ruolo da interprete. È lei infatti a far comprendere il significato della storia d’amore con BV alla smarrita Faye, parlando del suo vero rapporto con il marito scomparso ormai oltre venti anni fa.

Malick lavora per accumulo, il montaggio è frenetico, le inquadrature spesso sghembe, tuttavia cariche di fascino e di senso. Quel che mette in scena, accompagnato dalle ormai solite considerazioni con voci fuori campo (in questo caso di Faye e Cook) non è naturalmente solo un triangolo amoroso, ma una riflessione a tratti un po’ ampollosa sul senso della vita. Quel che è sempre più stupefacente è la capacità di Malick di sedurre i suoi interpreti coinvolgendoli in progetti sicuramente lontani dai blockbuster.

 

Ecco quindi Michael Fassbender nei demoniaci panni di Cook, produttore musicale, onnipotente al punto da voler mettere in discussione tutto (riesce anche a vincere la forza di gravità), incuriosito da quell’amore che in qualche modo cerca di minare e poi di ricercare attirando a sé la smarrita cameriera Rhonda, interpretata da Natalie Portman, schiantata e quasi ubriacata da quella nuova dimensione di ricchezza e disponibilità che prima irretisce e poi travolge anche Miranda, la madre single di Rhonda, cui dà vita un’inconsueta Holly Hunter. Cook è la luce che illumina gli altri personaggi, ma li fa bruciare come falene curiose quando gli si avvicinano troppo.

Faye è invece affamata di vita, vuole provare, sperimentare quanto più è possibile, vuole emergere anche artisticamente, ma le sembra di avere sprecato tempo di fronte alla scoperta della semplicità di vita delle sorelle rimaste al paesino. E se fosse quella la felicità? Rooney Mara, con quell’aria da ragazzina smarrita e il sorriso che risucchia le guance, è perfetta nella sua insicura voglia di trasgressione e di emozioni. Il personaggio più dolce è quello di BV, con Ryan Gosling che dimostra di sapere suonare già prima di La la land: è lui il vero motore senza voce off, il personaggio più autentico e vero, anche quando incontra sulla sua strada un’esagerata Cate Blanchett, peraltro come sempre magnifica. Così come travolgente è l’incursione musicale di Val Kilmer.

C’è poi un elemento aggiuntivo che pone Malick su un piano altro e curioso: la colonna sonora che alterna rock, blues e classica con disinvoltura e quasi sempre con discreta funzionalità, e fa da pendant con le immagini di repertorio che si insinuano nel racconto, forse un po’ troppo lungo. Malick non ha ritrovato il vecchio Terrence che ci aveva folgorato tanti anni fa, ma sembra comunque avere imboccato una sua nuova strada che all’inizio ci era parsa ostica, pretenziosa e forse anche un po’ inutile. Oggi invece, pur senza esagerare, comincia a dare segni di interesse.

Song to Song, di Terrence Malick, con Ryan Gosling, Rooney Mara, Michael Fassbender, Natalie Portman, Patti Smith, Cate Blanchett, Val Kilmer, Iggy Pop, Holly Hunter

 

Ridley scott torna ad alien, ma la star è l’androide

“Se volete davvero un franchise posso mandare avanti l’ingranaggio per sei film”. Basterebbe questa dichiarazione di Ridley Scott, in una recente intervista, per classificare il nuovo ciclo di prequel della geniale intuizione che fu l’Alien del 1979 come una delle saghe horror più spaventose di sempre. Perché, diciamolo, non è che l’inizio sia stato dei più incoraggianti: dopo il pasticcio in stile “vorrei essere Kubrik ma non posso” di Prometheus, questa dell’ex figliol prodigo della fantascienza alternativa hollywoodiana, più che un’anticipazione allo spettatore pareva quasi una minaccia. Eppure, rispetto proprio al capitolo precedente, sconclusionato nella trama e inutilmente filosofico, il nuovo Alien: Covenant riesce quantomeno a riguadagnare il diritto di esibire in bella mostra un meritato Alien nel titolo. E scusate se è poco.

Tanto per cominciare, la trama è un furbo mix di sequel (del prequel, appunto) e remake proprio dei primi due episodi della saga, a oggi ancora i più fortunati e riusciti dell’intero “franchise”: un’astronave a metà di un lungo viaggio interplanetario, un equipaggio misto per età, sesso, razza e specializzazione, un debole segnale di soccorso a dirottare la spedizione su un pianeta sconosciuto. Nel mezzo, strizzatine d’occhio a volontà per lo spettatore più affezionato, che se in Prometheus si era dovuto accontentare di polverine velenose, droidi assassini e poliponi alieni giganti (sigh), qui può finalmente riabbracciare, seppur con le dovute precauzioni, il caro vecchio xenomorfo in nero lucido fuoriuscito dall’inquietante matita di H. R. Giger.

Ma la vera notizia è che, una volta tanto, Scott pare rinunciare al tono pretenzioso e saccente della sua filmografia più recente, risparmiando allo spettatore già rassegnato il suo marchio di fabbrica a suon di spiegoni moralizzatori ed elucubrazioni esistenzialiste. Alien: Covenant riesce innanzitutto a recuperare almeno in parte quel clima da Dieci piccoli indiani nello spazio aperto, quell’incrocio di nascondino e gioco al massacro in sequenza che erano poi i punti di forza delle prime puntate, a basso budget e ad altissima tensione. D’altro canto, purtroppo, ciò che invece continua inesorabilmente a mancare è la genuina atmosfera da horror claustrofobico, sacrificata ancora una volta in favore di scene splatter già viste ed effetti speciali sostanzialmente inutili: tra il terrificante alieno in formato pigiama in latex anni ’80, che faceva capolino dagli angoli bui, e questo nuovo, interamente in computergrafica, più scimmia che insetto nei suoi balzi tra muri e giugulari, il paragone resta tutt’ora impietoso.

 

La sensazione è che il veterano Ridley, ancora all’infruttuosa ricerca di una nuova Ripley (meglio comunque la bambolina sconsolata Katherine Waterston dell’espressività tutta zigomi della precedente Noomi Rapace), in mezzo a tanti kolossal dal budget pressoché illimitato abbia finito col disimparare a fare le cose semplici, a suggerire e nascondere piuttosto che spiegare e mostrare ogni cosa, anche la più scontata. Intanto, sempre più vero protagonista di questo nuovo corso è l’androide interpretato da Michael Fassbender, personaggio carismatico e decisamente interessante nel ruolo di fil rouge del racconto. Da quando Scott ha deciso di riprendere le redini della saga, liquidando una volta per tutte voci e speranze riguardo all’ipotesi di un reboot firmato Neil Blomkamp, il cyborg con un’insana passione per l’estinzione del genere umano resta la mossa più azzeccata, l’intuizione più felice per leggere l’intera epopea sotto una nuova luce. Eppure anche lui, nonostante la magistrale interpretazione di un Fassbender dal tocco di re Mida su ogni ruolo gli venga assegnato, fatica a tratti a tener su la baracca: anche l’attore, come il suo creatore ai tempi di capolavori senza tempo tipo Blade Runner, dà il meglio di sé quando all’irrefrenabile istinto logorroico riesce a preferire momenti di umanità e ribellione fatti di sfumature, accenni e atmosfere.

Da questo punto di vista Alien: Covenant è comunque un piccolo passo nella direzione giusta, a patto di evitare ulteriori deviazioni dalla rotta ben conosciuta e chiesta a gran voce dai fan della saga. I quali baratterebbero volentieri sei episodi riusciti a metà per uno intero fatto come si deve. We want to believe, Ridley.

Alien: Covenant di Ridley Scott con Michael Fassbender, Katherine Waterston, Billy Crudup, Danny McBride