Cartoline dalla mostra di Manet

In Arte

Qualche riflessione sulla mostra di Palazzo Reale che celebra Édouard Manet, forse il più grande dei pittori dell’Ottocento.

Non ci sono i pezzi  più celebri dell’artista (niente Olympie, né Colazioni sull’erba) ma non è certo questo il problema della mostra Manet e la Parigi moderna, allestita nelle sale di Palazzo Reale: l’artista parigino sta in quel ristretto novero di pittori che non sbagliano mai un quadro e i dipinti presenti in mostra ben testimoniano la grandezza assoluta della sua pittura.

Né fa difetto la ricchezza o la qualità dei confronti. Non manca (quasi) nessuno dei protagonisti di quegli anni: compagni di strada, allievi, epigoni. Ed è l’occasione di riempirsi gli occhi e il cuore con i dipinti del grande parigino: a causa della sordità di lungo corso delle istituzioni italiane rispetto alla migliore pittura moderna dell’Ottocento, non sono molti i dipinti di Édouard Manet (1832-1883) nelle collezioni pubbliche della penisola (ma a Milano ce n’è uno, anche se poco noto: un Ritratto a cavallo, nella Collezione Grassi, alla Gam).

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Édouard Manet, Stéphane Mallarmé, Parigi, Musée d’Orsay, 1876

Il tema prescelto per l’esposizione è il rapporto del pittore con la Parigi in vertiginosa metamorfosi della seconda metà del secolo decimonono. E le sale più riuscite sono proprio quelle dedicate alle trasformazioni della metropoli o al sorgere di nuovi iconici edifici – come l’Opéra Garnier –, con le tavole degli architetti a raccontare l’evoluzione delle forme della città.

Qui si scoprono anche gemme inaspettate: una commovente veduta della Senna, orchestrata in minore da un Gauguin quasi debuttante; prima dell’incontro-scontro trasfigurante con Van Gogh, che avrebbe potuto scombiccherare anche psichi ben più salde della sua, prima del lungo finale di partita, in tropici polinesiani più o meno tristi. O, ancora, La strada di Gennevilliers (1883) di Paul Signac, non ancora puntinista: una composizione rigorosissima, da non dispiacere a Cezanne, per un angolo di campagna appena minacciato dalla modernità che presto cambierà tutto, evocata, ma senza alcuna retorica, dalle ciminiere fumanti sullo sfondo.

Paul Signac, La Route de Gennevilliers: sobborgo di Parigi, Parigi, Musèe d'Orsay, 1883.
Paul Signac, La Route de Gennevilliers: sobborgo di Parigi, Parigi, Musèe d’Orsay, 1883.

Manet come pochi altri pittori prima di lui ha saputo trasportare sulla tela la realtà del mondo che viveva, scardinando sistemi e gerarchie di genere. Proprio qui sta l’origine degli scandali che i suoi quadri continuavano a generare: come interpretare quella Colazione sull’erba, troppo reale per esser allegoria, troppo scandalosa per essere reale? Come fare i conti con il nudo di Olympia, sprovvisto di qualsiasi giustificazione mitologica, che guarda in faccia proprio te, spettatore oggi come al Salon del 1865?

Stupisce un po’, in questo senso, l’assenza in mostra di Courbet, che qualche decennio prima aveva aperto la strada a una rinnovata pittura realista, anticipando polemiche e rifiuti che segneranno il percorso del suo più giovane epigono, senza però condividerne il rigoroso radicalismo stilistico.

Festa al Moulin Rouge, olio su tela, Giovanni Boldini (1842-1931), MusÈe d'Orsay, ParigiBoldini, Giovanni1889Francia - Parigi, MusÈe d'Orsay
Giovanni Boldini, Festa al Moulin Rouge, Parigi, Musèe d’Orsay, 1889

Il modo di Manet di confrontarsi con la vita moderna è radicalmente diverso da quello degli Impressionisti che pure lo consideravano un riferimento (ma lui non vorrà mai esporre nelle loro mostre). Se gli Impressionisti tentano di bloccare sulla tela le infinite variazioni della pelle luminosa del reale nel suo continuo mutare, Manet ricerca, nel mutare del reale, forme e composizioni di solida, e quasi classica, costruzione. I contorni ben marcati a delimitare le forme, le campiture di colore piatto che costruiscono plasticamente i volumi, non hanno nulla a che fare con lo scintillare tutto di superficie effimera delle istantanee impressioniste.

I suoi ritratti hanno la solennità delle effigi rinascimentali, e mai la leggerezza mondana di Giovanni Boldini. Le sue scene di vita quotidiana nascondono citazioni da Raffaello e non scadono mai nel bozzetto di costume. L’interesse per gli accessori e la moda contemporanea non si trasfigura mai in gusto da modista come accade, per dire, a James Tissot. E anche quando gli capita di raffigurare scene tumultuose di vita metropolitana, tra brasseries e Folies Bergère, colpisce il rigore della costruzione e non il frastuono di un locale affollato. Come sono lontani i pranzi domenicali di Auguste Renoir o Scena di festa di Boldini (a un passo da Toulouse-Lautrec). Se anche mette in scena la corrida, c’è silenzio nei dipinti di Manet; nei dipinti di Monet, al contrario, c’è sempre rumore; se non altro, almeno, lo sciabordare dell’acqua (anche nei più trattenuti, come il bel Argenteuil del 1872, esposto in mostra in una sala a tema “marine”).

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Édouard Manet, La fuga di Rochefort, Parigi, Musée d’Orsay, 1881 circa

Non per questo Manet rinuncia a confrontarsi con la cronaca: nella stessa sala della marina di Monet, Fuga di Rochefort (1881 circa) è il racconto – a modo suo, tutto mare – di un episodio che aveva fatto scalpore in Francia negli anni Settanta: la fuga rocambolesca da una colonia penale in Nuova Caledonia, di Henri Rochefort, intellettuale e agitatore politico radicale, protagonista della Comune di Parigi nel 1870 (ma finirà deputato conservatore e ultranazionalista). Il volto di Rochefort è testimoniato in mostra da un bel ritratto di Giovanni Boldini (un suo ritratto dipinto da Manet si conserva invece ad Amburgo): gli occhi azzurri e la vicenda sembrano quelli di Steve McQueen, fuggitivo dalla Guyana francese in Papillon.

I valori di Manet sono, in primo luogo, valori pittorici, e si applicano ugualmente a un ritratto, a una scena di genere, a una grande scena di storia come a una natura morta. «Il suo difetto è una sorta di panteismo che non fa differenza tra una testa e una pantofola, che a volte dà più importanza a un mazzo di fiori che alla fisionomia di una donna». Così scriveva di Manet il critico Théophile Thoré nel 1868: pensava di criticarlo e non si accorgeva di celebrarne la grandezza.

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Édouard Manet, L’asparago, Parigi, Musée d’Orsay, 1880

Sta lì a dimostrarlo il meraviglioso, minuscolo Asparago, poesia di piccola cosa: poche pennellate e pochi toni, dove persino la firma collabora all’eleganza dell’insieme. Appassiscono, al confronto, le rose e i gerani di velluto e porporina di Fantin-Latour. Ma lo stesso pittore sa mettere in scena, come nessuno degli impressionisti avrebbe potuto fare, anche la grande storia, con respiro epico e misura classica (ed è questo forse uno degli aspetti che la mostra non riesce a raccontare). Difficile rimanere impassibili davanti all’Esecuzione dell’Imperatore Massimiliano (1867): qui le cose accadono con un’evidenza incolpevole dove ognuno attende all’opera sua. Un capolavoro di pittura moderna nello scalarsi meditatissimo dei soldati (i cui gesti, è giusto riconoscerlo, sono di operai che si affaticano e non di carnefici che incrudeliscono nella bisogna), nell’apertura di paesaggio, quasi cezanniana; e i bambini che si sporgono a guardare, come nel finale di Roma città aperta. Un dipinto (ne esistono più versioni, questa è l’ultima) che palesa la capacità di Manet di inserirsi nella catena della migliore tradizione della pittura occidentale: a monte – sono confronti da manuale – il Goya di 3 maggio 1808 (1814), a valle il Picasso del Massacro in Corea (1951).

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Édouard Manet, L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano, Mannheim Städtische Kunsthalle, 1868

Il rapporto di Manet con la Parigi dei suoi anni è anche rapporto con gli intellettuali più aggiornati che abitano la città: da Baudelaire a Mallarmè a Zola. Proprio a quest’ultimo, solitario difensore degli exploits di Manet ai Salon, il pittore dedicherà un meraviglioso ritratto che è per molti versi una dichiarazione di intenti. La pittura si ribalta sul piano al massimo del suo splendore, le campiture ampie si accostano ai gorghi di colore materico (come nello schienale della poltrona) che quasi prefigurano, se non proprio l’Informale, almeno le ninfee del vecchio Monet: accade così anche nei fiori di Olympia.

Lo scrittore che siede serio in poltrona non è ancora il fortunato romanziere che diventerà, né il coraggioso pamphlettista dell’affaire Dreyfus: è, con la solidarietà della gioventù avventurosa e sperimentale, un compagno di battaglie e predilezioni estetiche condivise. Le passioni comuni sono celebrate nel ritratto con una specie di proto-collage di riproduzioni di opere d’arte che si accumulano e accavallano alle spalle dello scrittore, come cartoline su un frigorifero: l’auto citazione dell’Olympia, una stampa giapponese, i Bevitori di Velazquez che sbucano semi-nascosti. Un’invenzione geniale di Manet che farà scuola: una riproduzione del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca sta appesa, riflessa in uno specchio in un magnifico dipinto di David Hockney (ho la cartolina sul frigo: me l’ha portata un’amica dalla mostra di Londra…).

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Édouard Manet, Ritratto di Émile Zola, Parigi, Musée d’Orsay, 1868

 

David Hockney, My parents, 1977
David Hockney, My parents, 1977

E da qui si potrebbe partire per divagazioni non troppo fuori luogo: la passione giapponese, per esempio, è un basso continuo per l’Europa di quegli anni; in mostra lo si capisce bene ammirando le Variazioni in viola e verde (1871) di James Whistler, americano trapiantato tra Londra e Parigi, che in un capriccio di colori pastello trasporta sulle rive della Senna una stampa giapponese (ed è bellissima anche la cornice).

O, ancora, la predilezione per Velazquez: per Manet, e si fatica a dargli torto, «il pittore dei pittori». L’esperienza della pittura spagnola, approfondita in un viaggio iberico alla metà degli anni Sessanta, è decisiva per la messa a punto stilistica dell’artista parigino. Non si comprende la salda immanenza del Pifferaio (1866), verissimo e mistico insieme, se non si considerano, alle spalle, i santi di Zurbarán o certe figure di Goya. Alla passione per la pittura spagnola (contraltare agli interessi inglesi di Monet: Turner, Constable, Gainsborough…) si accompagna anche la fascinazione per le iconografie spagnoleggianti, cui è dedicata una sala in mostra: e via di toreri, flamenchi, balconi…

Édouard Manet, Il balcone, Parigi, Musèe d’Orsay, 1868

A proposito di balconi (il modello iconografico qui è Goya), vale la pena soffermarsi su uno degli apici del percorso di Manet, uno splendore in quadricromia dove il rigore dei richiami cromatici accompagna la partizione dello spazio imposta dalla griglia del parapetto. Il dipinto fu esposto al Salon del 1869; e i critici si scatenarono: «è in concorrenza con gli imbianchini»; «chiudete le imposte!». Rimarrà invenduto nello studio dell’artista, accanto all’Olympia, fino alla sua morte.

Roberto Longhi si era divertito, alla fine di un suo bellissimo documentario dedicato a Carpaccio, a montare sul balcone del francese un cagnolino ritagliato da un dipinto del veneziano, con un ardito fotomontaggio che potrebbe ingannare molti: dimostrando, in un colpo, la modernità del pittore antico e la capacità di Manet di stare in dialogo con la grande tradizione.

L’affascinante modella seduta in primo piano, con l’immancabile collarino verde (verde come l’ombrello, come la ringhiera, come le serrande), quasi un marchio di fabbrica delle donne di Manet, è Berthe Morisot, qui alla prima comparsa come modella. Lei, che di Manet diventerà anche cognata, era in primo luogo talentuosa pittrice, capace di interpretare con intelligenza la lezione di Édouard. Sarà, tra l’altro, l’unica donna presente nella prima Esposizione degli Impressionisti nel 1874. Un suo dipinto del 1879, presente in mostra (Giovane donna in tenuta da ballo), sarà acquistato, un anno prima della morte della pittrice, dallo Stato francese su consiglio di Stéphane Mallarmé: era, in extremis, il riconoscimento ufficiale della sua attività di artista.

Eva Gonzales, Un palco al Théâtre des Italiens, Parigi, Musée d'Orsay, 1874 circa
Eva Gonzales, Un palco al Théâtre des Italiens, Parigi, Musée d’Orsay, 1874 circa

È curiosamente un’altra pittrice donna la più fedele continuatrice della pittura di Manet: Eva Gonzalès. Nel suo Un palco al Théatre des Italiens del 1874 sembra che Olympia si sia rivestita per andare a teatro: senza separarsi dal suo bouquet. Le interpretazioni più fertili dell’arte del caposcuola, che ne consegnano la lezione, a costo di tradirla, fin dentro le avanguardie del Novecento, sono però quelle di Edgar Degas e Paul Cézanne: il primo in mostra con una lezione di danza di struggente eleganza (con la sbarra rossa che attraversa e scandisce la composizione); il secondo con la Pastorale (1870), un omaggio-reinvenzione della Déjeuner sur l’herbe.

I limiti dell’esposizione sono, però, nella sua stessa natura. È, ancora una volta, una mostra fatta con i quadri di un museo solo, il Musée d’Orsay di Parigi. Ne consegue, inevitabilmente, che non sono i dipinti da esporre a essere scelti in funzione di un discorso critico o poetico, ma, al contrario, sono i discorsi critici a essere scelti in funzione dei dipinti a disposizione: discorsi, ne consegue, inevitabilmente un po’ generici anche quando a disposizione c’è la collezione strepitosa dell’Orsay.

Edgar Degas, Il foyer della danza al teatro dell'Opéra, Parigi, Musée d'Orsay, 1872
Edgar Degas, Il foyer della danza al teatro dell’Opéra, Parigi, Musée d’Orsay, 1872

Qualcosa di simile era già stato fatto non molto tempo fa – era il 2013 – a Venezia (e non sono pochi i dipinti presenti in entrambe le occasioni: vengono a fare le vacanze italiane, ogni tre-quattr’anni). Lì però il filo conduttore prescelto era “Manet e l’Italia”: c’era, insomma, lo sforzo di imbastire una riflessione che fosse in relazione con il luogo in cui l’esposizione andava in scena: Venezia, dove Manet risiede negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Si potevano, in quell’occasione, vedere accostati i dipinti del francese e gli amati modelli italiani. E anche se non tutti i confronti avevano senso (Il Cristo in pietà di Antonello da Messina del Museo Correr, tanto commovente quanto malconcio, ancora si domanda perché lo avessero scomodato), la possibilità di fissare occhi negli occhi, una accanto all’altra, la Venere di Urbino di Tiziano (1538) e la sfacciata Olympia (1865) faceva capire molte molte cose sulla novità dirompente della pittura di Manet, sulla sua rinuncia, una volta per tutte, alla concezione della tela come scatola prospettica, come finestra aperta su uno spazio illusionistico; lo sguardo di Olympia sembrava dire: da qui non si torna indietro.

La mostra di Milano, invece, prodotta da Skira, potrebbe facilmente essere rimessa in scena domani a Baltimora o a Doha o a Singapore o a Londra: senza cambiare di una virgola l’allestimento, solo traducendo i cartellini, peraltro ben fatti. Come giudicare una mostra così, che rinuncia a farsi dispositivo espressivo autonomo, all’incrocio di linguaggi diversi, per essere solo un contenitore di opere d’arte, tenute insieme da ragioni più o meno intrinseche, da circostanze più o meno casuali?

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