I ritratti jazz di Roberto Masotti

In Musica

Quasi in parallelo al festival JazzMi inizia “Life Size Acts”, la mostra dedicata al grande fotografo che ha immortalato fra gli altri Anthony Braxton e Jan Garbarek, Stefano Bollani ed Enrico Rava. Al Teatro Litta dal 4 al 12 novembre

Storie di jazz e ultrajazz. Non chiamatela mostra quella che Roberto Masotti ritaglia col titolo Life Size Acts dentro JazzMi e per tutto il festival (dal 4 all’11 novembre), nelle sale di Palazzo Litta da poco eletto spazio aperto alle culture di ogni ordine e grado. I trentaquattro ritratti a grandezza naturale che per dieci giorni dialogano con un gioiello del Sei-Settecento milanese, in strutture firmate De Lucchi, sono una piccola folla di presenze della musica contemporanea più libera, diciamo pure “free”. Storie da vedere e anche da ascoltare, in due video che arricchiscono l’installazione attraversando l’afroamerica e i suoi fratelli, il jazz e il suo contrario, il jazz in fuga dal jazz. Il più esteso dei due sfoggia una splendida colonna sonora d’autore (DJ Spooky): assemblaggio di improvvisazioni che sembrano una sola, lunga, coerentissima improvvisazione. Aderente a una carrellata di immagini per la memoria che sembra un film.

Roberto Masotti, milanese “da Ravenna”, non è veramente un fotografo, almeno non solo: è un viaggiatore che in un tempo lungo della musica d’oggi – cinquant’anni, si può dire – ha coltivato nella macchina fotografica la ragione per soddisfare una irrefrenabile curiosità, alla ricerca di tutte le sperimentazioni possibili, ovunque si annidassero.

L’afroamerica come pista di decollo, ma non di atterraggio. Nell’archivio sterminato di Roberto Masotti (350 mila foto), centinaia di lucide menti della musica non allineata, dai Settanta a oggi, hanno trovato un angolo in cui sistemarsi, un tavolo cui sedersi. Un tavolo vero. Life Size Acts è infatti la continuazione ideale di un lavoro lungo una vita ch’è You Tourned the Tables on Me: galleria di ritratti in cui 115 musicisti del dopoguerra hanno volentieri giocato con un tenerissimo ferrovecchio usato come “vincolo”. Per anni Roberto Masotti, macchina fotografica in una mano, si è trascinato in giro per il mondo un recupero di magazzino con il quale ha obbligato, no invitato, a interagire tutti i musicisti che andava incontrando, conoscendo, approfondendo. Nel dialogo con quel tavolino ogni artista finiva per svelarsi. E parliamo di John Cage, Anthony Braxton, Luciano Berio, Sun Ra, Evan Parker, Sylvano Bussotti, Cecil Taylor, Morton Feldman, l’Art Ensemble of Chicago al completo, Demetrio Stratos, Mauricio Kagel, Steve Lacy, Brian Eno, Paolo Castaldi, Terry Riley, Giuseppe Chiari, Michel Portal, Steve Reich, Davide Mosconi, Frederic Rzewski, Michael Nyman, Philip Glass e così via.

Ma andiamo con ordine. Life Size Acts è una installazione di grandi ritratti – due metri e dieci per uno e mezzo – su modernissimo pvc scattati con una tecnologia “storica”: la macchina “panoramica”, analogica, che sulla vecchia pellicola fissa immagini di largo respiro, in generoso verticale. Dalla figura intera, Masotti “esplode” dettagli che poi ritaglia nel pannello in diverse forme, dimensioni e incastri: la mano sulle chiavi del sax, una bocca baffuta che “racconta” il volto cui appartiene, oggetti rubati allo sfondo, dettagli che parlano, completano e allargano il ritratto, lo modificano, lo trasformano. Molto più che didascalie, gli incastri sono suggerimenti cifrati di quel che il musicista è, fa e suona. I ritratti diventano mini racconti che dilatano anche la fissità della fotografia e arrivano alle soglie della musica che non c’è, annunciandola.

In onore del genius loci, molti italiani compaiono nei trentaquattro aforismi fotografici, quasi la metà. Vediamo Stefano Bollani – che JazzMi quasi squilla come testa di serie (e si può aprire dibattito) – mentre scherza con Enrico Rava: notare il gioco di gambe. Signorile , come l’uomo e il musicista, è il ritratto dovuto a chi non c’è, Giorgio Gaslini, che tanto ha scritto del jazz in Italia. E poi Trovesi, il Gruppo Romano Free Jazz di Schiano, Schiaffini e Tomaso, il trombone di Gianluca Petrella (con Xamvolo il 10 novembre alla Triennale), il pianoforte-clarinetto di Alberto Braida e Giancarlo Locatelli.

Ma lo sguardo rimbalza da Chicago al Mare del Nord. In apertura possiamo mettere Roscoe Mitchell e il suo sax, faccia a faccia con il sax bianco non meno rabbioso di Evan Parker, eroe della risposta europea alla rivoluzione nera. In libero zing-zag di black&white, ecco George Lewis ieri e oggi, Derek Bailey con morso di mela, Sclavis e Alexander von Schlippenbach, in cui appare in silhouette il caro tavolino, Paul Lytton e Paul Lovens, che “cita” lo stesso pettine sdentato con cui era stato fotografato anni prima, Hank Bennink, il folle delle percussioni non afro, miracolosamente filiforme e senza freni a 75 anni, e i tedeschi del Zentralquartett, che suonavano nella cupa Ddr del film Le vite degli altri. E Paul D. Miller, in arte DJ Spooky, giovane nero in volo fra America ed Europa, chiamato perfino a Bayreuth per “lavorare” su Wagner. Nel video che DJ Spooky sonorizza con stralci di improvvisazioni firmate e non, scorre frenetica una ancor più inesauribile galleria di grandi compositori, istantanei e non, da Cecil Taylor a Jan Garbarek. E in Norvegia ci fermiamo, perché Garbarek, incredibilmente quasi mai citato nelle pubblicità di JazzMi, è il gigante che conclude il festival il 12 novembre in Conservatorio.

Non è casuale coincidenza. Oltre ai vent’anni come fotografo ufficiale della Scala insieme a Silvia Lelli, Roberto Masotti è stato tra i coautori di quello stile Ecm che ha fatto storia a sé nella discografia contemporanea, per la cura grafica senza eguali, tutta astrazioni e nature impressioniste in bianco e nero, in cui si riconosceva l’idea di musica del suo creatore, Manfred Eicher. Anche grazie alla Ecm si apriva la porta a quegli slittamenti progressivi dal centro del jazz che hanno creato nell’improvvisazione europea spazi nuovi di ricerca per la musica non accademica. Nel processo di metabolizzazione del jazz afroamericano, il quartetto “nordico” di Keith Jarrett – grazie alla controvoce del sax di Garbarek – è stato modello e acceleratore. E Garbarek è poi diventato un compositore “colto” , con esperienze affini alla poetica di Arvo Pärt, che capitoli come Aftenland (1979), Officium (1994), Mnemosyne (1998) e Officum Novum (2010) stanno a dimostrare.

Life Size Acts cita presenze concrete di JazzMi, ma è anche tutto quel che JazzMi non ha e tanti festival non hanno (più) il coraggio di percorrere: l’indagine di quella musica contemporanea che indaga il Suono senza metterlo in cornice.

 

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