Libri sotto l’albero? Ve li consigliamo noi!

In Letteratura

Parole, immaginazioni, mondi: il meglio che ci è venuto in mente per fare un regalo in forma di libro. Venti titoli per il Natale 2018 scelti dalla redazione di Cultweek.

L’amico difficile? Il regalo di gusto? Necessità di sorprendere? Il salva-la-faccia dell’ultima ora? Un classico di domani?

Una buona notizia: ce li abbiamo tutti.

Venti titoli a prova di tutto, selezionati per voi dalla nostra redazione letteraria: l’alto, il colto, il pop, l’accessibile, il tenero, l’impensato.
Ne è uscita una classifica di libri che, davvero, non  potete non avere sotto l’albero.

Da regalare, da regalarsi, da scoprire, da passare.

Perché un diamante sarà anche per sempre, ma non c’è nulla come un buon libro per far passare (meglio) il Natale…

 

Giuseppe Carrara

Edouard Louis, Storia della violenza (Bompiani, 2016)

“Quando le si chiede cosa significhi per lei la parola razzismo, l’intellettuale americana Ruth Gilmore risponde che il razzismo è l’esposizione di certe popolazioni a una morte prematura. Questa definizione funziona anche con la dominazione maschile, l’odio per l’omosessualità o per i transessuali, la dominazione di classe, tutti i fenomeni di oppressione sociale e politica. Se si considera la politica come il governo dei viventi da parte di altri viventi, e l’esistenza degli individui all’interno di una comunità che non si sono scelti, allora, la politica è precisamente la distinzione fra delle persone che conducono una vita sostenuta, incoraggiata, protetta, e delle persone esposte alla morte, alla persecuzione, all’omicidio”. Così si apre l’ultimo libro di Edouard Louis, Qui a tué mon père (di prossima uscita per Bompiani) e tanto basta a descrivere anche il suo libro precedente, Storia della violenza, il racconto di un abuso sessuale attraverso il quale si mettono in mostra i meccanismi di determinazione sociale, di discriminazione razziale e di pregiudizio di genere e di classe.

 

Mark Cousins, Storia dello sguardo (Il Saggiatore, 2018)

Negli ultimi anni si sono moltiplicati sempre di più gli studi di quella che ormai ci siamo abituati a chiamare cultura visuale: non più e non soltanto storia dell’arte, ma tutto quello che quotidianamente guardiamo. Uno specifico filone di queste ricerche è riservato al modo in cui l’occhio umano vede e interpreta le immagini. Si inserisce in questo contesto l’ultimo libro di Mark Cousins, Storia dello sguardo, un vero e proprio atlante della visualità che non procede come una storia lineare, ma piuttosto per associazioni, confronti, salti, dalle pitture rupestri agli snapchat.
Il libro di Cousins ha l’innegabile pregio di farsi leggere con assoluta leggerezza ed è in grado di collegare il design industriale alle ciotole iraniane del 3000 a.C., confrontare gli interni dei film di Ozu alla camera di Van Gogh e ai lavori di Le Corbusier, tracciare una linea di reinterpretazione del dipinto di Jacques-Louis David sulla morte di Marat, che passa per i Simpson e il film A proposito di Schmidt. Un libro da leggere dall’inizio alla fine oppure da aprire quasi a caso per guardare in modo nuovo immagini che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi.

 

Samuele Petrangeli

Doug Dorst-J.J.Abrams, La nave di Teseo (Rizzoli Lizard, 2013)

Se amate i libri, al limite del feticismo, La nave di Teseo di Doug Dorst e J.J. Abrams vi soddisferà come poche altre cose. La storia di partenza è quella di S. che, naufrago e senza memoria, si ritrova immischiato in una lotta fra rivoluzionari e un qualche oscuro ordine mondiale piuttosto guerrafondaio.
Ma è solo la base: La nave di Teseo è, infatti, anche il libro che due ragazzi stanno leggendo e commentando. Accanto, quindi, alla storia di S., raccontata da V.M. Straka (misterioso autore di cui non si sa nulla), si dipana l’incontro e l’indagine di Eric e Jen, attraverso annotazioni, cartoline, mappe disegnate sui tovaglioli di un bar. Nonostante la sua aria profondamente giocosa, La nave di Teseo affronta temi anche piuttosto complessi, come l’etica della lotta contro i potenti e i suoi limiti. Ma soprattutto è un libro sui libri, sulla loro importanza e su ciò che diciamo di noi grazie a essi.

*Plus: potete regalarlo al vostro amico che ormai legge soltanto in digitale, mostrandogli che sì, il cartaceo è proprio tutta un’altra storia.

 

Larry McMurtry, Lonesome DoveLe strade di Laredo (Einaudi, 2018)

Più canonici nella forma, ma straordinari nella sostanza, sono Lonesome Dove e il suo sequel Le strade di Laredo di Larry McMurtry (usciti negli anni ’90, ma che Einaudi ha ripubblicato in questi mesi). Western crepuscolari raccontano la traversata dal Texas al Montana di una mandria di vacche, guidate dai due ranger in pensione, August McCrae e Woodrow Call.
Insieme i due libri si aggirano sulle 1500 pagine e creano un affresco, tanto imponente quanto vivido, della frontiera, con i suoi personaggi, dall’aurea bigger then life, quasi sovraumani, ma che la scrittura di McMurtry ci rende umani, profondamente umani. Insomma, se volete qualcosa in cui sprofondare per tutte le nevose vacanze natalizie, Lonesome Dove e Le strade di Laredo con le sue pianure polverose sono semplicemente perfetti – ma chi prendo in giro? Sono perfetti in qualsiasi stagione.

 

Elisabetta Cantone

Alvaro Rissa, Il culo non esiste solo per andare di corpo (Il nuovo Melangolo, 2015)

Per i filologi più esperti, le menti più fini, gli inarrestabili curiosi; ma anche per coloro che, di fronte a una citazione di Nanni Moretti, sentono scaldarsi il cuore. Ebbene sì, Alvaro Rissa, “poeta contemporaneo vivente, studioso in particolare del ruolo del poeta nell’oltretomba e dell’oltretomba nella poesia”, esce dalle inquadrature di Ecce Bombo e firma una meticolosa e filologica raccolta di testi classici (“originale” latino e greco a fronte).
Omero, Sofocle, Lisia, Platone: tutti autori dei quali si dice scopritore di una serie di brani sinora taciuti, che vanno a creare un’antologia diligentemente composta. Ma se siamo abituati ad immaginarci Socrate che nell’esordio della Repubblica scende (con quel significativo κατέβην) al Pireo per osservare la processione delle Bendidie, ora lo riscopriamo indaffarato ad attendere il tram 24 in piazza Duomo a Milano. E se Lisia ci ha fatto tremare con le sue orazioni rivolte ai giudici ateniesi, i papiri di nuova acquisizione ci restituiscono un’aspra contesa fra due presidi liceali. Quanto al titolo di tutta la raccolta, si deve all’ode oraziana a Noemi, che ben riassume lo spirito dei tempi: fulgidas mirare nates Noemis / et nega, si vis, opus esse divom: / non modo ad faeces datur exituras / scilicet anus (“guarda le fulgide chiappe di Noemi, / e nega pure, se credi, che siano opera divina. È evidente che il culo non esiste solo per andare di corpo”).
Se dunque è chiaro che dietro questo rigore scientifico si nasconde un gioco, è altrettanto chiaro che chi lo ha condotto lo ha fatto con estrema maestria. Walter Lapini, docente di lingua greca all’Università degli Studi di Genova e autore de Il culo non esiste solo per andare di corpo, dimostra un’impeccabile conoscenza della materia, restituendo agli occhi dei più esperti testi pienamente uniformi a forme e stili dei grandi del passato, in un sapiente scherzo tecnico capace di divertire gli appassionati della disciplina e stupire coloro che mai avrebbero pensato di godere di una simile lettura.

 

Domenico Starnone, Scherzetto (Einaudi, 2016)

“Tacere per non urtare, per non indispettire, e parlare solo per essere d’accordo, per mostrare simpatia, per lodare, per essere amico di tutti, assolutamente di tutti, vale a dire di nessuno, e così apparire innocuo, e perciò frequentabile, e intanto accumulare disprezzo per chiunque, e nuocere di nascosto”. Una figura cinica, a tratti sinistra, esce prepotentemente dalla penna di Domenico Starnone in Scherzetto, breve romanzo edito da Einaudi nel 2016.
In giornate come queste, dove tutto scintilla di entusiasmo natalizio e vacanziero, il racconto di Starnone propone, quasi fosse un controcanto, la visione schietta e caustica di un nonno alle prese con il giovane, giovanissimo, nipote. Trascinato svogliatamente, quasi secondo un procedimento analettico, da Milano a Napoli per badare al nipote, il protagonista viene a scontrarsi con un ruolo prepotentemente respinto sino a quel momento.
Ma non solo la costrizione di balocchi e delizie affettive; il nonno di Mario si trova costretto al confronto con il suo passato, in una casa – un tempo di sua nonna, ora di sua figlia – pullulante di ricordi e memorie. Il protagonista è un illustratore che, posto di fronte a visioni già trascorse e a nuove sorprendenti e indefinite, pensa per tutto il corso del romanzo per immagini. Così Starnone, che con poche e significative pennellate riesce ad adempiere sapientemente al compito dello scrittore di veicolare un preciso messaggio, senza sbrodolare in fiumi di parole. Uno scontro-incontro generazionale, sì, ma al contempo un invito a ogni genere di lettore a ripercorrere nel proprio libro dei ricordi ciò che siamo stati, che siamo e che avremo modo di essere.

 

Carlo Grande

Dario Voltolini, Pacific Palisades (Einaudi, 2017)

Quelle palizzate funzionerebbero come
valvole, come filtri:
lascerebbero filtrare da noi verso l’esterno
tutto il nostro amore
tratterrebbero al di qua il nostro rancore,
il frutto vertiginoso
della saetta, del raggio nucleare
della nostra sete di vendetta?
Funzionerebbe così la valvola, il filtro, la
pacifica palizzata?”

 Questo è ciò che si chiede Dario Voltolini. Ma prima ancora: che cosa sono le pacifiche palizzate? Sono lui stesso, o meglio: siamo noi stessi? Sono ciò che ci separa dagli altri, che ce ne protegge. Sono però anche ciò che ci impedisce di percepirli, di sentirne l’amore. E se questi non ci fossero nemmeno più?

Tramite una prosa poetica dai tratti sibillini, Dario Voltolini ripercorre le vicende del suo passato. Immagina un dialogo con le persone a lui care scomparse. Attraverso le numerose inarcature cerca di superare le parole, proiettandosi su di un altro piano. Cerca di vedere oltre, appunto, le palizzate di cui ci parla “(…) facendo emergere una prospettiva nuova: ognuno di noi custodisce dentro di sé, insieme al proprio passato, anche, – forse soprattutto – quello di chi ci ha preceduto.
Un testo che con l’incedere dei versi ci porta tra i viali alberati torinesi, verso il fiume e i palazzi stile liberty avvolti dalla bruma autunnale. Ci sospinge senza posa verso immagini fantastiche che giungono da un “nostro interno proiettore”. Ci apre ad un orizzonte oltre le palizzate che:

“(…) forse ha a che fare anche con qualcosa/che nella nostra bella lingua chiamiamo/anima.”

 

Alice Nagini

Una, Io sono Una (add editore, 2018 – traduzione di Marta Barone)

La prima graphic novel di Una è un racconto universale e intimo al contempo: Io sono Una percorre una crescita lacerata dalla violenza, un divincolarsi tra spazi ristretti, una rincorsa a ricucire la moltiplicazione delle ferite. Ma è anche uno spaccato sulla misoginia come male diffuso, perpetuato da un pensiero comune pericolosamente in grado di deformare la visione della realtà – “perché le cose brutte non succedono alle persone buone”.

Di cornice, gli anni Settanta e l’indagine sullo Squartatore dello Yorkshire: episodio emblematico che funge da cassa di risonanza a questioni, episodi e convinzioni che riecheggiano nel nostro presente. Nell’evocare, così, una denuncia di portata collettiva, l’autrice libera la protagonista dal ruolo di unica vittima in scena, aprendo a un racconto corale che dà spazio alle storie di altre donne che condividono la sua condizione di isolamento e colpevolizzazione, ma che non sempre sono sopravvissute.

Le dinamiche connesse alla tematica della violenza di genere sono affrontate con potente efficacia visiva che si coniuga a parole attente a svelare le conseguenze delle responsabilità collettive sui percorsi individuali, ottenendo un discorso che scuote e convince.

Una racconta sapientemente con gli occhi, attraverso soluzioni grafiche evocative e fortemente simboliche: a parlare sono gli alberi avvizziti, le ali ripiegate, l’aggrapparsi a un balloon vuoto, la perdita di fibra morale. Una lettura che merita attenzione, per l’impatto visivo che attiva una riflessione profonda che colpisce prima e oltre le parole; per le parole stesse, asciutte, forti e dirette: è il linguaggio in metamorfosi di chi raggiunge, con fatica, la consapevolezza del valore della propria voce femminile.

 

Byung-Chul Han, Psicopolitica (Nottetempo, 2016)

Nella società del libero accesso, della trasparenza e dell’autoesposizione, quali sono le condizioni e i limiti del nostro spazio di scelta? Possiamo davvero ritenere il decisionale un ambito determinato autonomamente? Byung-Chul Han, che da anni si dedica all’analisi filosofica su globalizzazione e ipercultura, con il breve ma densissimo saggio Psicopolitica offre una lettura del mondo digitalizzato e delle sue implicazioni sul rapporto dell’individuo con i rapporti di forza.
La società contemporanea sembra aver abbandonato l’interesse per il soggetto corporeo, avviandosi così a una svolta paradigmatica: è la psiche la nuova forza produttiva da sfruttare.

Ci ritroviamo, così, in un contesto in cui non vi è un potere che impone e divieta, piuttosto seduce con intelligenza. Non percepiamo più le dinamiche del controllo ma siamo indotti a sottometterci volontariamente, esponendoci e illudendoci di una partecipazione non reale a un intorno percepito come completamente accessibile e trasparente. I big data sono allora lo strumento principe di una società psicopolitica che non solo positivizza la volontà individuale e collettiva, ma è anche capace di accedere a una doppia inquietante possibilità: quantificare le mosse del soggetto e influenzarlo a livello pre-riflessivo.

Per non incappare in un baratro pessimistico, Han suggerisce però una via d’uscita: una resistenza è ancora possibile e si traduce in una nuova forma di eresia, l’idiotismo. Con il suo effetto idiosincratico, l’idiota, abita “l’esterno che non può essere pensato in anticipo ed è il solo in grado di schiudere un dialogo e una modalità vitale Altri.

Parlare di libertà è complesso, banale, astratto: eppure è un discorso inesauribile e, ogni volta, necessario. Per ritrovare le coordinate del presente e imparare a proteggersi da ciò che crediamo di desiderare, Psicopolitica è una proposta consapevolizzante.

 

Francesca Persico

Edith Wharton, Triangoli imperfetti (Paginauno Edizioni, 2018)

Tre racconti, tre imperfetti triangoli di passione, sentimenti traditi e opprimenti convenzioni sociali. Ecco un assaggio tanto vivido quanto graffiante della narrativa di Edith Wharton, pubblicato dalla casa editrice Paginauno.

Per prima incontriamo Christine: è sul ponte di un transatlantico che sta prendendo il largo. Alle spalle l’Europa, Le Havre e il ricordo bruciante di una storia di amore appassionata con il celebre pittore Jeff Lighthow, sposato. Davanti a sé New York, un marito accomodante, una suocera invadente, un figlio adorato e, soprattutto, il piacevole conforto delle abitudini. L’apparente allegria di un ritorno a casa sarà presto turbato da una notizia inattesa.

Nora, protagonista di Atrofia, gioca a golf, va a ballare, porta i capelli tagliati corti. È una giovane donna da poco sposata con George, un uomo cagionevole, dal carattere difficile e dalla vanità insoddisfatta. Ha dei figli e un amore segreto – o, almeno, così crede. Ripensa alla sua vita mentre osserva il paesaggio scorrere al di là del finestrino di un treno, diretto a Westover, dove la attende un incontro importante.

Ne Il giorno del funerale Ambrose ha appena seppellito sua moglie, Milly. Lei lo aveva avvertito: o me, o lei. Lui aveva scelto lei e Milly si era suicidata, lanciandosi dal tetto. Ambrose non aveva mai immaginato, o forse non aveva voluto immaginare, che la moglie potesse arrivare a tanto. Sconvolto dal lutto, la sua anima è un guazzabuglio di sentimenti contrastanti. Lo attende una notte difficile: dovrà rendere conto a sé stesso e alla giovane amante Barbara.

Lui, lei e l’amante – di lui o di lei, a seconda dei casi. La fabula geometrica di queste vicende è antica come il mondo. Ciò che soprattutto rende avvincenti queste storie è l’abilità con cui Edith Wharton riesce ad intrecciare le vite dei personaggi creando, nello spazio di poche pagine, suspense e coinvolgimento nel lettore. Newyorkese, aristocratica, divorziata, la Wharton doveva conoscere bene quei vincoli sociali fatti di apparenze, invidia e inganni che così spesso determinano la realtà e soffocano i sogni dei protagonisti delle sue vicende.

 

Emma Cline, Le Ragazze (Einaudi Stile Libero, 2016)

È l’estate del 1969 a Los Angeles e l’aria profuma di carne alla griglia. La gente ondeggia tra il salotto e il parco in cerca di un modo convenzionale per occupare il pomeriggio. Evie Boyd ha 14 anni – anche se ne dimostra di meno – e, come tutte le adolescenti a quell’età, desidera solo una cosa: essere guardata. Improvvisamente, le vede. Del resto, sarebbe impossibile non notarle, le ragazze. Con la loro sola presenza sembrano far vibrare gli atomi del mondo: viene voglia di seguirle, di essere come loro.
È una forza magnetica quella che spinge Evie a voler entrare a far parte del loro gruppo. Suzanne, Donna, Helen, Roos sembrano creature selvatiche e affascinanti, aliene rispetto alla patina di ipocrisia di quell’estate californiana che si preannuncia uguale a tutte le precedenti. Ma la vita di Evie, proprio quell’estate, cambierà per sempre. Ammaliata dall’aura di Suzanne, la seguirà al ranch, una piccola comune cresciuta ai margini della città. Qui conoscerà Russel – “il Mago” come lo soprannomina Mitch – leader venerato dalle ragazze, i falò e i rituali di iniziazione, le droghe, il sesso ma soprattutto l’ostinazione di credere che ci sia un’esistenza più travolgente da vivere, persone più vere da cui essere amate, azioni più estreme da provare sulla propria pelle. Ma il fascino e l’apparente libertà della vita al ranch cede presto il passo al degrado e allo squallore. Le ragazze, da creature incantate quali erano apparse inizialmente agli occhi di Evie, sono ridotte a marionette nelle sapienti mani di Russel il quale, dopo averne conquistata la fiducia, le spinge a subire e commettere violenza.

Come è facile insinuarsi nella mente e nel corpo di una ragazza di quell’età. Lo ricorda una Evie ormai adulta che, a distanza di anni, riporta alla memoria il sentire estenuante di quell’estate lontana. Le ragazze di Emma Cline è uno di quei romanzi che si leggono tutti d’un fiato. L’autrice non lascia da parte nulla: riesce a mostrare con cruda sincerità tutto quello che si agita nella mente e nel corpo di una adolescente di 14 anni.

 

Amalia Allegretti

Haruki Murakami, L’assassinio del commendatore – Libro Primo Idee che affiorano (Einaudi, 2017)

In una domenica piovosa, un pittore abbandonato all’improvviso dalla moglie esce di casa senza volerci più tornare.

Haruki Murakami dà l’ennesima prova della freschezza della sua scrittura con L’assassinio del Commendatore, un libro da scartare sotto l’albero o dove vi pare: è un’enciclopedia dalla forma letteraria.

Ricercatezza di particolari, ricchezza di spunti musicali, di conoscenze artistiche, dall’Occidente all’Oriente, sono gli ingredienti che danno sapore ad un thriller inclassificabile, senza l’etichetta di un vero genere letterario.

Un libro che non lascia scampo, dalla prima fino all’ultima pagina, fino all’ultimo respiro.

Ma senza fretta, è solo il libro primo: la seconda parte del dittico (Libro secondo, Metafore che si trasformano) è prevista in uscita per il nuovo anno.

 

Linda Pedraglio

Tove Jansson, Fair Play (Iperborea, 2017)

Con i suoi Mumin, i dolci ippopotami bianchi, negli anni Cinquanta Tove Jansson diventò celebre in tutto il mondo come illustratrice e scrittrice per bambini. Figlia un padre scultore e di una madre illustratrice, la Jansson aveva ereditato il dono di un disegno dalle linee essenziali in grado di sprigionare l’anima e il carattere delle figure che ritraeva. I Mumin popolavano già le fantasie dei bambini, quando nel 1966 Tove Jansson vinceva il premio Andersen.

Ma la penna di Jansson sa parlare anche agli adulti e Fair Play ne è una lampante dimostrazione. Scritto nel 1995 e pubblicato per la prima volta in Italia nel 2017 da Iperborea, Fair Play è la storia di due donne che si amano, che attraversano ogni giorno un corridoio che le divide per ritrovarsi in uno spazio comune, fatto di riflessioni, di film, di pittura e scrittura. Lo fanno con l’intimità di un amore domestico, irrorato dagli anni trascorsi insieme nella ricerca continua di una salutare equidistanza, che si nutre di silenzio e di quell’ironia tutta nordica. In scena ci sono due artiste, Mari e Jonna, al cui ardore spirituale corrisponde una discrezione calda e delicata nel rapporto con l’Altro. Perché in fondo – ce lo dice la straordinaria Tove Jansson,- l’amore è una questione di Fair Play.

 

Valerio Magrelli, Il commissario Magrelli (Einaudi, Torino 2018)

 Senza baffi, né pipa, di poliziesco ha soltanto un’assonanza nel nome: questa volta, a condurci nel mondo di crimini, ingiustizie e misfatti è un commissario speciale. Da Maigret a Magrelli, il commissario dell’omonimo Valerio Magrelli si affaccia sul mondo per farsi detective in nome della poesia, e partire “sulle tracce dei misfatti/ che restano impuniti a questo mondo”.
Dall’Egitto di Giulio Regeni all’Italia di Stefano Cucchi, attraverso l’ecatombe del Mediterraneo, il commissario Magrelli insegue un infantile sogno di giustizia che percorre invisibili tracce lasciate, non dai carnefici, ma dalle vittime. Perché la poesia non può che stare lì, tra i sacrificati della storia, e Magrelli ci porta con un’ironia che è lieve, ma che sa anche farsi feroce. Questo libricino, edito da Einaudi, è la commistione di due universi – considerati – letterariamente lontani, il genere giallo e la poesia, che qui si incontrano e qui si congedano nella figura di un commissario-poeta, che discute e ridefinisce i contorni della legalità legandola al concetto di “umano”. E quale miglior tempo del Natale 2018 per indagare le connessioni tra ciò che è lecito e ciò che è umano? Quando sembra che per agire nella legalità tu, lettore e cittadino, debba perdere un pezzetto della tua umanità.

 

Daniela Origlia

Gustav Meyrlynk, Il Golem (Skira, 2018)

La nuova collana Gotica di Skira, copertina intelata nera con scritte d’oro, esce con uno strepitoso titolo, di quelli da far accapponare la pelle: Il Golem di Gustav Meyrlink, uno dei primi e più famosi testi gotici, uscito a puntate tra il 1813 e ‘14 e poi pubblicato in volume nel 1815.

A costruire l’atmosfera da incubo contribuiscono anche le illustrazioni, inquietanti riproduzioni di antiche stampe che raffigurano la creazione e i delitti del mostro e il ghetto della Praga magica, teatro dei suoi crimini.
Anche se il suo mito risale alla notte dei tempi, la leggenda del Golem si fa risalire al XV secolo, alle sperimentazioni alchemiche dell’imperatore Rodolfo II, quello che conosciamo bene dal ritratto fatto di frutti dell’Arcimboldo.
In quel clima di mistero e di congiure, il rabbino Joseph ben Abraham Gikatilla versato nella Cabbala ‘diede forma dall’Elemento a un essere mostruoso, consegnandolo a una presenza d’automa senza pensiero, grazie a una parola magica che gli inserì tra i denti’. Il mostro era in grado di compiere, nel più trucido dei modi, ogni vendetta del rabbino, finché aveva in bocca il foglietto con la parola magica. Estratto quello, si afflosciava inerte, fino al successivo eccidio.
Al ripetersi di una certa posizione astrologica delle stelle sotto le quali fu creato, egli ritorna ancor oggi spinto dall’ansia tormentosa di acquistare vita materiale.
E al modo che svariati fenomeni annunciano lo schianto della folgore, anche qui certi orribili segni premonitori tradiscono il minaccioso irrompere di quel fantasma nel dominio dell’azione. Ecco allora la screpolatura dell’intonaco di un vecchio muro prendere la forma di un uomo che cammina, le figure di ghiaccio sui vetri delle finestre stranamente configurarsi come lineamenti di volti irrigiditi’.

Anche l’orrendo rigattiere Aaron Wassertrum ne è un’incarnazione, e la sua pupilla, la quattordicenne Rosina la rossa.
Lui è lo spirito del male, della corruzione; lei è la seduzione fatale, il frutto proibito: il suo sorriso fisso, quasi un sogghigno, incatena e rende succube ogni uomo. È lo stesso sorriso, lo stesso potere che avevano la nonna e la madre. Quando una muore, l’altra rinasce. Sempre la stessa Rosina la rossa.

 

Marcel Granet, Il pensiero cinese (Adelphi, 2018)

 La Cina è vicina era il titolo del film di Marco Bellocchio del 1967 che aveva fatto tendenza. Oggi la Cina è vicina, vicinissima e la sua influenza è dappertutto, dall’economia, alla politica, alla tecnologia, alla cultura, ai film, allo yoga, ma della sua cultura, cioè di quel che sta dietro agli slogan sappiamo e capiamo poco.

Passiamo senza fare una piega dal vedere i cinesi come degli imperialisti senza un briciolo di etica, a praticare la ginnastica cinese, il Pa Tuan Chin, e interpretare il mondo secondo lo yin e lo yang, a definire il Tao il culmine della filosofia e il vertice della saggezza.

Ora Adelphi porta in libreria un classico: Il pensiero cinese di Marcel Granet, pubblicato per la prima volta nel 1934, uno strumento per avvicinare un sistema di pensiero che non contempla idee e principi astratti, la Storia come evoluzione, rapporti di causa effetto, diversità di genere – ovvero le basi fondanti del pensiero occidentale, del nostro modo di vedere e capire il mondo.

Il segreto del successo dei Cinesi sta forse nel fatto che chiedono ai loro saggi temi adatti ad una libera meditazione, e non idee, e men che meno dogmi: poco importa che il maestro che risveglia in loro il gioco dell’intelligenza sia Taoista o Confuciano; poco importa se le pratiche che preparano la liberazione dello spirito mirano a far nascere un’autonomia incondizionata o a creare il sentimento della dignità dell’uomo.

In ambedue i casi domina lo spirito di conciliazione e l’eclettismo rimane la regola. L’ideale comune è una saggezza completa.

Quella Confuciana rassomiglia un po’ alla saggezza stoica, quella dei Taoisti a un pensiero epicureo. Questa conoscenza completa, o piuttosto dominio di sé e del mondo, poiché l’Universo è uno, si ottengono attraverso la liberazione dagli appetiti, dai desideri. Meditazione o conoscenza, nella pratica che purifica o nobilita ciò che importa è uno sforzo, intimo e totale, per sfuggire ai desideri, per riconoscersi nel tutto, nel Tao: un sentimento dell’unità di comunione col Tutto.
Nel sociale, questo sentimento è quello che prova un gruppo umano quando si sente una forza completa; si esalta nelle feste comuni, quelle delle semine e dei raccolti, e nelle assemblee.

Un forte desiderio di coesione prevale sulle opposizioni, sugli isolamenti, sulle rivalità della vita quotidiana.

Contrapposizione e solidarietà si traducono nella concezione che fa dello Yin e dello Yang una coppia antitetica e insieme unita dalla più perfetta delle comunioni.
Yin è il femminile, il leggero, il profondo, l’ombroso. Yang è il maschile, il pesante, l’espansivo, il solare.Nessuno può esistere senza l’altro. Sono solo aspetti che si alternano nel tempo (per esempio il giorno e la notte, il succedersi delle stagioni) e nello spazio (scendere e salire una collina, una porta aperta e chiusa).

Gli uomini riconoscendo e seguendo il ritmo dell’alternanza vivono all’unisono col Tutto.

 

Jill Bough, L’asino (Nottempo,  2018)

Quando diamo dell’asino a qualcuno c’è un misto di disprezzo. Pensiamo: questo qui non ce la può proprio fare, è incapace, stolido, ostinato; e, insieme, proviamo per lui una sorta di compassione e di impotenza.
All’animale vero non ci pensiamo: è svanito nella sua metafora in uomo.
Nel nostro immaginario, nella nostra percezione ha prevalso la visione di Esopo, che nel VI secolo a.C. ha scritto una ventina di favole in cui gli asini sono rappresentati come stolti. È il caso de L’asino vestito della pelle del leone, favola rivelatrice della mentalità greca e ancora della nostra, che racconta di un asino che, trovata la pelle di un leone lasciata a seccare da dei cacciatori, la indossa orgoglioso come un Ercole grottesco. L’asino se ne va in giro così combinato, suscitando terrore nella gente, così preso dal suo ruolo, che solleva il muso ed emette un potente raglio: tutti lo riconoscono, l’incanto svanisce e lui si becca un sacco di legnate.

Nel suo libro, Jill Bough restituisce all’asino la sua identità animale, indagandone le origini, le caratteristiche morfologiche, l’utilizzo nei lavori, le rappresentazioni letterarie e iconografiche; ricostruisce insomma una avvincente storia sociale dell’asino e non si finisce mai di stupirci di come un animale così utile, resistente, fedele sia stato tanto disprezzato e maltrattato. Il testo è anche accompagnato da foto, disegni, vignette satiriche, dipinti, che ci presentano tutte le contraddizioni, le discrepanze tra la realtà e il nostro immaginario.

Le prime raffigurazioni di asini risalgono alle pitture rupestri del paleolitico: erano cacciati al pari delle gazzelle. Il loro utilizzo soprattutto come bestie da soma risale forse a 10.000 anni fa. Hanno trasportato raccolti e prodotti agricoli, trainato massi e legname, trasportato viveri e attrezzature per gli eserciti e girato pesanti macine per produrre farina. Ancora oggi gli asini continuano essere indispensabili nelle economie dei paesi più poveri e inospitali del mondo come il Pakistan, il Laos, i deserti della Dancalia in Etiopia.

All’indietro nel tempo, nell’Antico Regno egizio, la sacralità dell’asino fu tale che le sue orecchie, rappresentate come due piume che spuntavano all’estremità di uno scettro, costituirono l’emblema della sovranità.

Nell’Antico Regno sono stati rinvenuti dieci scheletri completi di asini accanto a tombe di faraoni, segno dell’alta considerazione in cui questi animali erano tenuti. Ma le cose cambiarono alla fine del Regno Medio, con l’invasione degli Hyksos, che causò disgregazione e incertezza e condusse, tra l’altro, all’uso schiavistico degli Ebrei e dei loro asini: cominciava così l’associazione degli asini con la classe degli schiavi e dei derelitti, che ci avrebbe accompagnato fino al Novecento. Anche il suo significato religioso cambiò e Seth, un tempo potente dio del deserto dalla testa d’asino, animale che simboleggiava la sua potenza sessuale soprattutto nella coda e nel pene eretti e nelle orecchie, cadde in disgrazia. Fu trasformato in un potere oscuro, il dio del caos e del male.

La demonizzazione dell’asino fu ripresa nella cultura greca e romana. I sileni erano esseri metà uomini e metà asini, violenti stupratori, regolarmente ubriachi, gli asini infatti erano indispensabili nella coltivazione della vite.

Una nuova rivoluzionaria visione dell’asino si verifica con l’affermarsi del Cristianesimo, la religione degli umili. È un asinello con un pio bove a scaldare Gesù nella grotta di Betlemme, è sulla sua groppa che la Madonna fugge in Egitto per scampare alla Strage degli Innocenti, è ancora l’asino a portare Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme la Domenica delle Palme.

Eppure lo scherno e il disprezzo continuano a perseguitarlo fino a oggi. Un poco di giustizia gli arriva  da questo volume, con cui Nottetempo inaugura la sua nuova collana, Animalia.

 

Ruggero Ovena

Paolo Nori, La grande Russia portatile (Salani, 2018)

Una guida sentimentale, una raccolta di frammenti vissuti in prima persona. Una Russia dapprima conosciuta dall’autore sui libri universitari (sul finire degli anni Ottanta), poi vissuta direttamente, a partire dal 1991, quando il paese si chiamava ancora URSS e conservava una netta diversità con la vicina Europa.
I tempi in cui la cultura popolare si fondava attraverso libri “clandestini” e diffidava dei quotidiani nazionali. La rivoluzione di fine secolo e la successiva crisi monetaria. Testimonianze di una Russia in cui esistono ancora oggi grandi problematiche sociali, ma che al tempo stesso conserva una ricchezza culturale inarrivabile, soprattutto letteraria.
Mosca e San Pietroburgo, ma anche e soprattutto i “grandi russi”, studiati ed amati dall’autore, da Chlebnikov a Majakovskij, dalla Achmatova a Dostoevskij.
Con la sua prosa diretta, ironica e coinvolgente Nori parla di tutto questo e molto anche di se e riesce nell’impresa di farlo in sole 184 pagine. Una guida indispensabile per chi vuole intraprendere il suo primo viaggio in Russia o anche solo avvicinarsi da lontano

 

Michela Fregona

Andrew Sean Greer, Less (La nave di Teseo, 2017)

Arthur Less è un Odisseo al contrario; non scappa da Troia in giro per mezzo mondo nella speranza di tornare a casa: scappa da casa, infilandosi in un periplo assurdo, nella speranza di finire il più lontano possibile. Il fatto è che l’amore è una cosa complicata, e Less – scrittore famoso ma non famosissimo, prestante ma non più freschissimo, produttivo ma con un libro che nessuno vuole pubblicargli, comodo nel suo rifugio post universitario ma con un conto corrente che comincia a virare verso il basso – una cosa ha capito della vita: non vuole soffrire. E così cerca il dribbling: non starà ad uccidersi di drink solo soletto nella sua casa, ad ascoltare il vuoto lasciato da Freddy (che si sposa, giusto nell’anno dei suoi cinquanta): no, accidenti – niente melodrammi, niente scenate, niente scuse accampate per non partecipare alla cerimonia, niente imbarazzi. Arthur Less sarà, semplicemente, via: perché, in nome della sua necessità di non guardare in faccia quello che potrebbe essere il più grande errore della sua vita, ha accettato l’inaccettabile, l’impossibile, l’improponibile. A New York, Città del Messico, Parigi, Torino, Berlino, Marocco, India, Giappone e, infine, di nuovo a San Francisco – sicuro di essere lontano, lontanissimo, e impossibilitato a tornare indietro quando Freddy dirà “sì”.

Premi misconosciuti, presentazioni di autori in costume da cosmonauta, lezioni di letteratura in tedesco senza conoscere il tedesco, intossicazioni alimentari in Marocco, monsoni indiani e un claustrofobico reportage da Kyoto: riuscirà Arthur Less a usare tutto questo per sopravvivere alla sua paura di soffrire?

Vi farà ridere, piangere, pensare. E, soprattutto, quello che è certo è che non potrete non volergli bene.

 

Gabriele Dadati, L’ultima notte di Antonio Canova (Baldini+Castoldi, 2018)

Al capezzale del più grande scultore neoclassico ci sono un ragazzino, un dottore, il fratello amato: non è la sua casa, quella nella quale si consumano le ultime ore, ma una stanza al secondo piano di un palazzo nobile a Venezia, benignamente messa a disposizione da un amico, poiché la vita ha portato l’artista a viaggiare sempre.
Tutto si cercherà di fare – dagli impiastri ai decotti – per alleviargli il male, ma Antonio Canova sa, in cuor suo, che il momento di fermarsi sta davvero per arrivare. E, allora, ha una urgenza: confessare al fratello sacerdote il suo più ambizioso, oscuro, temuto peccato – quello legato al segreto ricevuto, anni prima, alla corte di Napoleone, dalla bocca di una giovanissima Maria Luisa, neo imperatrice.

Potere, seduzione, ricerca della bellezza, turbamento: gli ingredienti per una narrazione esemplare ci sono tutti in questo romanzo di Gabriele Dadati, che agisce di contrappunto tra le due figure che, da poli opposti, occupano tutta la narrazione; l’uno, Canova (gli occhi, il punto di vista, il santo laico, l’artista sublime) e l’altro, Napoleone (il corpo che si muove, il protagonista della scena, il politico spregiudicato, dannato e mai domato) sono entrambi ostaggio del demone della dedizione: arte o patria che sia, l’ideale e il confronto con l’eternità chiedono parimenti, al di là del bene e del male, un prezzo altissimo per l’esistenza.