Calcio e letteratura: da Nick Hornby a Gianni Brera

In Letteratura

Da “Febbre a 90′” a “Il gioco più bello del mondo”: vi raccontiamo la letteratura che si incontra con il calcio

È innegabile: calcio e letteratura sono due mondi la cui conciliabilità, al giorno d’oggi, risulta difficile persino da immaginare. Troppo e irrecuperabilmente nazional-popolare il primo, troppo spesso tragicamente d’élite il secondo. È anche per questo che i rari tentativi di contatto sono degni di attirare l’attenzione per lo meno degli abitanti più moderati di questi due pianeti, che conoscono così poco l’uno dell’altro. Gli sforzi non sono stati pochi, bisogna ammetterlo, ma occorre fare una selezione tra ciò che è considerabile letteratura e ciò che non si può davvero avvicinare a questo concetto. Non è nemmeno così difficile, in effetti: basta digitare la parola “calcio” nella sezione “Libri” di Amazon e farsi un’idea di quello che viene venduto per rendersi conto che, tra l’ennesima superflua biografia di un calciatore, qualche almanacco illustrato e i tentativi di costringere in un testo i principi della tattica basilare, la percentuale di ciò che è obbligatorio scartare immediatamente è altissima.

Mi piace pensare di essere un rappresentate di entrambi questi fantastici mondi e di passeggiare piacevolmente sul traballante ponte che li unisce. Chi invece ha preso la residenza – su quel ponte – è l’inglese Nick Hornby: la dimostrazione vivente che un uomo può avere una laurea a Cambridge, vendere best-sellers, essere un insegnante rispettabile, un acuto giornalista e uno sceneggiatore recentemente candidato al premio Oscar, pur avendo una totale, incontenibile e patologica ossessione per il gioco del calcio. Anzi, si potrebbe dire che è stata proprio la sua straordinaria passione per questo gioco a rendere Nick Hornby un personaggio di successo. Nel 1992 infatti esce Febbre a 90’, un romanzo autobiografico che ha come unica e assoluta linea guida il rapporto tra l’autore e la sua squadra – l’Arsenal – e che porta alla ribalta l’autore, allora trentacinquenne. Dal libro, tra l’altro, nel 1997 è stato ricavato un film di nome Fever Pitch, diretto da David Evans e interpretato da Colin Firth nel ruolo del protagonista Paul Ashworth.

 

 

Hornby ci racconta la nascita e lo sviluppo della sua fissazione in maniera spiazzante, vera e profonda sin dalle origini: ai momenti storici – spesso romantici e crudeli – si alternano quelli di intensa riflessione sull’essenza vera e propria dell’essere un tifoso, alcuni focus sui giocatori più o meno amati e sullo stato del calcio inglese tra gli anni ’60, ’70 e ’80. La serietà con cui Hornby ci parla del disastro dell’Ibrox e delle stragi dell’Heysel e di Hillsborough fa il paio con il totale rifiuto del movimento hooligan e dona al libro degli intervalli di stridente serietà necessari e dei quali sarebbe impossibile fare a meno.

Sarà che sono anche io un tifoso, sarà che Febbre a 90’ è scritto in maniera talmente colloquiale e sincera da risultare un misto tra una confessione e una raccolta di aneddoti da bar, ma sono tante le domande che vorrei fare al vecchio Nick oggi, nel 2016: vorrei chiedergli se ha ancora un abbonamento annuale, se era presente a quell’Arsenal-Wigan che ha segnato la fine dell’era di Highbury, vorrei sapere cosa pensa di Arsène Wenger, di Thierry Henry, della favola del Leicester e dello stato attuale del calcio inglese. Vorrei tanto parlare con lui, di fronte ad una birra, dell’Arsenal degli Invincibili e della finale di Champions League del 2006, a Parigi, quasi quanto vorrei parlare di viaggi con Kerouac.

Nick Hornby è stato il primo a portare la letteratura a Wembley, ad Highbury, nel North Bank, in trasferta, schiacciata tra i tornelli d’ingresso, in mezzo alle urla e agli strazi di migliaia di persone. Credo che l’abbia fatto non solo per coloro che ogni week-end non riescono a pensare ad altro, ma soprattutto per coloro che non lo fanno: era importante far capire a chi rimane basito di fronte alle assolute inadeguatezze comportamentali e psichiche proprie di chi possiede questa febbre quali siano le motivazioni più intense e pure di questo bambinesco distacco dalla realtà. Magari, in questo modo, coloro a cui non piace il calcio avrebbero potuto provare un accenno di compassione per queste creature febbricitanti e lunatiche, e avrebbero avuto un occhio di riguardo per la loro difficile condizione; non come si fa con i malati, ma come si fa con gli innamorati.

Innamorato di questo gioco, almeno quanto Hornby, anche se in maniera diversa, fu sicuramente Giovanni Luigi Brera – Gianni per gli amici, i colleghi e i lettori.  La sua è stata una figura di quelle che nel giornalismo – e in particolare nel giornalismo sportivo – passano davvero una volta ogni tanto. Direttore della “Gazzetta dello Sport” a soli trent’anni, ha lavorato per una lunga serie di testate, tra cui citiamo “Guerin sportivo”, dove venne assunto a soli diciott’anni, ma anche quotidiani non necessariamente sportivi, come “Il Giornale” e “la Repubblica”. Il libro che ho tra le mani e che vorrei portare alla vostra attenzione si intitola Il più bel gioco del mondo (edito da Rizzoli nel 2007) ed è un’antologia raccolta da Massimo Raffaeli degli articoli, delle pagelle e dei resoconti migliori tra gli innumerevoli prodotti dal giornalista lombardo. Agli occhi di un lettore giovane e appassionato di calcio come me, abituato alle moderne metodologie di comunicazione sportiva, i frizzanti e arzigogolati commenti di Brera risultano poetici e di impronta meravigliosamente novecentesca; riportano il lettore indietro ad un calcio dimenticato e poco più che embrionale, hanno la capacità di aprire una finestra sul passato e sul confronto con il gioco del ventunesimo secolo a cui siamo abituati, e ci permettono di vivere partite epiche e tremendamente difficili da descrivere con le sole parole.

Non fossi sfinito per l’emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio.” È così che Brera apre il suo intervento immediatamente successivo alla memorabile semifinale dei Mondiali di Messico ‘70 tra Italia e Germania, facendo ricorso ad un lessico classicheggiante che nessuno prima di lui – e sinceramente nemmeno dopo – si era sognato di applicare al calcio. Non solo: per rimanere in tema, si è inventato, negli anni, una divinità di nome Eupalla, che secondo lui proteggerebbe e ispirerebbe il gioco del pallone.

Brera però non si è limitato ad incrementare il corpus degli dei dell’Olimpo, ha fatto qualcosa di più: a lui si deve la creazione del linguaggio sportivo, e in particolare calcistico, come lo conosciamo oggi: tramite la coniatura di infiniti neologismi, che sono riusciti a diffondersi in numerosi ambiti, le fusioni armoniose tra metafore proprie della classicità, espressioni dialettali e meravigliosamente popolari, e una cultura tanto umanistica quanto imparziale, Gianni da San Zenone Po ha donato ai posteri non solo l’arte di raccontare lo sport, ma di farlo nella maniera più originale e coinvolgente possibile. È straordinaria, in particolare, la terza delle cinque sezioni in cui è diviso Il più bel gioco del mondo, quella dedicata alla raccolta dei commenti alle partite dei Mondiali di Spagna ’82; illuminante soprattutto per chi, come me, quel Mondiale non l’ha vissuto e ne ha solo sentito parlare dai nostalgici della generazione precedente.

Dieci anni dopo quell’impresa, nel dicembre 1992, Gianni Brera morì in seguito ad un terribile incidente d’auto, lasciando il giornalismo italiano orfano di un gastronomo, di un raffinato umanista, di uno sportivo competente, di uno scrittore consapevole e di un paroliere dalle doti sopraffine.

 

Concludendo, se mi è concesso, vorrei fare un appello. Fortunate anime che aspettate il week-end solamente per prendervi una pausa dagli impegni settimanali, che riuscite a rimanere impassibili di fronte a ventidue uomini che inseguono una sfera rotolante su un campo d’erba e che non vi trovate un lunedì sera qualunque a vagabondare su YouTube commuovendovi di fronte alle più grandi e clamorose vittorie della vostra squadra, a voi vorrei dire una cosa: la capacità che ha il calcio di muovere le masse, di ispirare, di emozionare e di unire è gigantesca, universale, totale, del tutto imparagonabile a qualunque altro tipo di esperienza io abbia mai provato, a tratti impossibile da concretizzare o realizzare in maniera verosimile.  I due signori di cui ho provato a parlarvi sono riusciti a trasformare in parole quello per cui, alle volte, le parole non esistono, nel bene e nel male, e per questo meritano il nostro plauso. Se non l’avete mai fatto, date una chance al gioco più bello del mondo, e se proprio non riuscite a sopportare novanta minuti di fronte ad uno schermo televisivo verde brillante, provate a leggere Hornby o Brera.

Non c’è modo migliore per cominciare.

Video di copertina di Vive le football libre!