Levigatezza: la materia poetica di Laura Di Corcia. In tutte le direzioni.

In Letteratura

Matericità, levigatezza, spazi e assenze. La nuova raccolta poetica di Laura di Corcia è “In tutte le direzioni”.

Come frecce scagliate in tutte le direzioni si muovono le esistenze.

Un movimento che si sviluppa nelle tre parti che compongono la nuova raccolta poetica di Laura Di Corcia (In tutte le direzioni, LietoColle) e che si declina nella pluralità dei soggetti: dall’io al tu, dal noi al loro.

Sono direzioni individuali e collettive, sentite dall’interno o osservate dall’esterno; direzioni storiche che trasportano gli uomini e le donne attraverso i secoli con tutto il passato che si avventa sulle spalle («il passato ci cinghiava la schiena»); direzioni scandite dai sogni, condottieri delle grandi migrazioni che unirono passi e speranze; direzioni spaziali che vanno dall’Africa all’America, dalle terre degli Argonauti a Brooklyn, dalla Siria a un trionfale Occidente; direzioni di sviluppo, potenziali o reali, delle stesse vite e della parola poetica.

Anche il movimento è pluridirezionale: può essere apparente e coincidere con il suo opposto («i sentieri non portavano da nessuna parte»), raggrumarsi in un chiodo dove persino il mare, movimento eterno, si corruga rattrappendosi; può essere misurato nella distanza percorsa dalle navi o nell’apertura di braccia lunghe come navi. La presenza del movimento si riflette nelle scelte formali: non a caso, la quasi totalità delle poesie inizia con un verbo, la parte più mobile del linguaggio, coniugato nelle sue diverse sfumature e talvolta, significativamente, nel gerundio che indica, appunto, un processo.

Si parte, così, alla ricerca della sabbia rossa o del senso, ma la ricerca trasforma e, nel silenzio del cielo («il cielo ammutolisce»; «il cielo stava muto»), diventa il fine.

Una scrittura nel contempo materica e levigata sostanzia l’universo poetico di Laura Di Corcia.

La matericità è dentro la capacità di tenere insieme immagini, figure, forme che conferiscono a questo universo una sua determinazione sensibile attraverso colori (il rosso, il verde, il bianco, il giallo, l’adamantino), consistenze geometriche come il cerchio, attraverso vegetazione, animali, persone.

Ogni cosa ha il suo rovescio. E, così, i colori non valgono soltanto a dare forza cromatica, ma assumono sensi ulteriori: il rosso, ad esempio, è, in Trilogia del rosso, una delicata allusione alla maturazione sessuale di una donna fatta di storie di millenni assiepate nel grembo, di bambine sorprese dal proprio corpo, di partenze e identità sociali pervicaci (devi «vergognarti di non essere una pianta»).

Gli animali che popolano questo mondo hanno la tenerezza dei cuccioli, il silenzio lascivo delle meduse, gli occhi dei gufi che predicheranno l’alfabeto, e poi la densità di balene, serpi, mucche, moscerini ma soprattutto il germogliare (immagine ripetuta) dei girini, stadio evolutivo di creature ancora in potenza, che si avventurano verso la direzione del proprio essere e che, proprio in questo, riassumono uno dei significati dell’opera. Al polo opposto di questo germogliare, dell’inquieto pullulare di energia che si affatica per raggiungere la certezza dell’essere, sta lo sbiadire, evaporare, una volontà di sparizione, una sorta di noluntas che stinge i colori e avvolge ogni cosa: «il mondo era un mantello sbiadito»; «ho provato a sbiadire negli alberi / a scolorare / le rose nel pugno.»; «Ho cercato di evaporare / la carne, di spingerla / verso il verde del passato.»

La levigatezza, invece, sta in una compostezza formale che trattiene il lessico dentro una sonorità distesa, nutrita da rimandi, richiami a distanza della stessa immagine, della stessa parola. Nelle prime due parti, i testi si organizzano in strutture simmetriche, spesso terzine. L’armonia si distende anche all’interno delle strofe, nel loro essere periodi sintatticamente compiuti, chiusi da segni di interpunzione forti (generalmente il punto fermo).

Le direzioni plurime sembrano di colpo confluire «Qui». In Qui / Un poemetto è, infatti, il titolo della terza e ultima parte del testo.

Eppure in questa confluenza non c’è pacificazione, né formale né sostanziale. Alla sorvegliata compostezza strutturale delle prime due parti, si sostituisce un poemetto snodato in diciassette tappe, dal Preludio al Finale, costituite da un’unica lunga strofa, ad eccezione dei due interventi del Coro e dei due testi, segnalati dal corsivo, di soli due versi. Il ritmo diventa incalzante nella prevalenza di versi brevi, nell’uso ricorrente della rima, delle assonanze, delle allitterazioni, nelle ripetizioni o variazioni di una parola o di un’espressione:

«Mi guardi e mi chiedi perdono.
Perdonami, non sono forte / (dici)
perdonami ma voglio solo cadere.»

I titoli suggeriscono combinazioni binarie (più volte compare, infatti, la parola coppia) proiettando verso categorie relazionali dove le frontiere diventano ancor più mobili e mutevoli e si spostano veloci come il ritmo dei versi. Il senso della frontiera in tutte le sue forme, anche nella sua negazione, si condensa in questo «Qui» dove le vite sperimentano la permanenza del confine, si muovono intorno ad esso, sfidandolo, subendolo o aggirandolo perché il confine (la cortina) che separa «esiste soprattutto nella nostra mente». Le mappe geo-esistenziali si allargano nell’ampiezza di espressioni, frequentemente ripetute, come al di là  e al di qua ed anche il lessico si estende fino a inglobare parole forti come pisciare.

Al coro (in due testi costituiti da una serie di interrogative senza risposta, distribuite in tre terzine) è, invece, affidato il compito di porre le domande radicali, le domande sul senso che si schiantano in una:

«E soprattutto
a cosa dobbiamo affidarci
se la linea mente e tradisce se stessa?».

La potente immanenza del nostro essere qui, nella spasmodica illusione di dire, dare una precisa direzione, «veicolare un senso» al nostro «possibile configurarsi in mille direzioni», nel Finale si scioglie in una musica che di nuovo si distende:

«E se tu non sai / non chiedere subito, aspetta.
Sii come la cenere,
stai immobile e muto,
lascia sedimentare.»