Il ’68, il femminismo, una città che si chiama Genova: che storia, ragazze!

In Letteratura, Weekend

Arriva da Genova, e sa di mare e di vento come la città, un libro collettivo, curato da Silvia Neonato, ‘La ragazza che ero, la riconosco’: racconta il dopo ’68, l’approdo al femminismo, la presa di parola delle donne

Forse per tutti, nel corso della vita c’è un prima e un dopo, un evento individuale, famigliare, collettivo che funge da spartiacque. E oggi si inanellano, nel cinquantenario del’68, ricordi e testimonianze su quello che è stato e ha rappresentato, per ciascuno e per tutti, la partecipazione ai movimenti di quell’anno “fatale”. Anche qui a Milano vogliamo ricordarlo, come Fondazione Badaracco, e lo faremo incontro che si terrà, non per caso, l’8 marzo alla Casa della cultura. Vogliamo testimoniare che il ’68 non è stato solo maschile, anche se molto lo è stato, ma ha visto anche la partecipazione di molte ragazze, magari in seconda linea, ma non meno determinate. E lo racconteremo  anche attraverso una serie di testimonianze di ragazze  che nel ’68 “c’erano”, in un libro collettivo che uscirà ad ottobre.

Racconta invece non tanto il ’68,  ma piuttosto il “dopo” del ’68, la svolta epocale del femminismo, i primi anni ’70, un altro e già in libreria libro collettivo La ragazza che ero, la riconosco, a cura di Silvia Neonato per Iacobelli editore.

Per le “ragazze” di 70 anni – chi più, chi meno – che scrivono le loro testimonianze in questo libro, l’evento che ha segnato lo spartiacque nelle loro vite è stato l’aver partecipato alla costituzione del Collettivo Femminista Genovese nel 1972. Molto diverse tra loro, già politicizzate alcune, completamente vergini le altre, tutte accomunate da un disagio profondo o rispetto alla propria famiglia o alla propria vita o al rapporto con gli uomini o alla partecipazione alla vita politica. Iniziano in quattro, tutte appartenenti al gruppo del manifesto, a formare un gruppo di sole donne, senza rinnegare la loro militanza politica più generale. In poco tempo il collettivo del Manifesto si allarga, si allarga, più di cento donne partecipano, si dividono in piccoli gruppi di autocoscienza e poi si raggruppano per discutere delle teorie femministe che venivano dagli Stati Uniti, di Carla Lonzi e dei suoi libri, dei convegni che nel frattempo cominciavano a tenersi. Fino a cambiare nome nel ’74 e a lasciare nel’75 la sede del manifesto e trovare una sede propria. Poi, negli anni, ci sono importanti battaglie politiche per l’aborto, la costituzione di altri collettivi ad esempio legati al sindacato. Per alcune di loro comunque l’appartenenza al collettivo finisce già nel ’76. Ma non finisce la consapevolezza di essere femministe.

Questa è la storia cronologica, così come loro la descrivono. Ma quello che ci dicono, attraverso i loro racconti è quanta importanza nella loro vita abbia avuto questo incontro tra donne, tanto da suscitare – molti anni dopo- il desiderio nel 2009 di partecipare in prima persona al documentario Donne in movimento. Il femminismo a Genova negli anni ’70 e di reincontrarsi ancora, dal 2011 al 2017, per ridare voce alle ragazze che erano, per testimoniare, attraverso le loro vite, il filo che ancora le lega, anche dopo percorsi di vita completamente diversi. Lunghi weekend a casa dell’una o dell’altra a parlare, ascoltare, mangiare insieme, passeggiare insieme, dormire insieme, anche litigare insieme, come se 40 anni non fossero passati invano, come se potessero ancora riconoscersi nelle ragazze che erano state. Il libro è venuto dopo, con qualche incertezza, qualche ritirata, qualche cambiamento nel racconto degli avvenimenti, ma anche la sicurezza di essere nel giusto, di volerci “mettere la faccia” su questa storia collettiva che appare come un patchwork di storie individuali, ma dove ciascuna contribuisce a formare un tutto, come nelle antiche e meravigliose coperte delle donne del West.

Una cosa mi ha colpito prima di tutto in questo libro: la presenza del mare nei loro occhi e nelle loro vite. Il mare lo guardano, nel mare si immergono, il mare fa parte della loro storia famigliare, il mare va e viene, porta via e riporta ricordi e riflessioni. Anche un po’ di vento, se è emblematica la figura di copertina: di una di loro con i capelli bianchissimi e scapigliati (ma come vorrei averli così…) appoggiata ad un’Ape rossa mentre legge un libro… Un’apertura ariosa, se così si può dire, che forse mitiga anche i momenti più drammatici delle loro vite.

Ora, nel presente che raccontano, ritorna prepotente il passato: l’inizio, di quando giovani donne sono arrivate a quelle riunioni portandosi dietro uno “sfregio”, personale e collettivo: di essere donne in un mondo di uomini. E tra loro – come nelle migliaia di collettivi, di riunioni, di piccoli gruppi di autocoscienza che in quei primi anni ’70 sono nati ovunque in Italia, hanno trovato la libertà di dire io/noi, di pensarsi e di pensare. All’inizio con ritrosia, con qualche timidezza, con qualche timore di esporsi troppo e poi sempre con più fiducia, con più sicurezza, con più forza: ”io ho vissuto un periodo di euforia per tutte le cose nuove che capivo e sentivo…” scrive Francesca Dagnino e continua: “stavamo bene tra di noi, ci tuffavamo dagli scogli senza paura, come quando eravamo bambine e non ci avevano ancora represse…..È stato un bel periodo, eravamo spavalde, con una nuova sicurezza in noi stesse”. “La cosa emozionante era che ci piacevamo e ci bastavamo (e avanzavamo). Le grandi scoperte, le intuizioni improvvise e dirompenti, che ci spalancavano interi universi, erano quello che ci legava le une alle altre. Stavamo facendo la storia e lo sapevamo. Non avevamo più bisogno di un occhio maschile, marxista o no, che ci approvasse, che ci riconoscesse. A quell’occhio, che era dentro di noi facemmo fare la fine di quello di Polifemo” scrive Evira Boselli.

Un periodo, una fase esaltante e straordinaria della vita delle donne che vi hanno partecipato, che si è poi espansa al di là della militanza stretta per allargarsi a cerchi sempre più vasti, in quello che è stato poi chiamato “femminismo diffuso.”

Ma per capire fino in fondo quello che questa esperienza ha significato, bisogna dare spazio e voce alle singole voci che si raccontano – otto – perché dalle loro storie emerge il salto vertiginoso dal prima al dopo. Molte di queste raccontano della loro vita nelle famiglie di  provenienza, per ricordarci quale atmosfera regnasse in quelle famiglie (“sono cresciuta in una famiglia tipica dell’Italia post-bellica…siamo vissute in un incubo fatto di botte, umiliazioni, minacce e, solo per me anche il divieto di uscire, dai miei tredici ai vent’anni”, oppure molestate adolescenti da uno zio, o ferite a morte dalla morte prematura del padre, o dalla consapevolezza di essere una bambina povera o aver vissuto un’infanzia devastata dalla guerra.)

Altre raccontano di disagi personali, di solitudine e di abbandono anche in famiglie più culturalizzate e disponibili (sono diventata femminista per vendicare mia madre dalle angherie di mio padre), di incapacità di riconoscere la loro identità e la loro potenziale forza.

Alcune raccontano anche di conflitti e contraddizioni all’interno di questa ritrovata libertà nel collettivo femminista, di gelosie e abbandoni, di una dissipazione amorosa e sessuale che la vertigine della libertà aveva indotto. Senza rimpianti però, senza falsi moralismi, come di una fase conclusa e però necessaria per andare da sé a sé. “Non è stato indolore questo nostro andare e venire di allora, così impavido, tra tradizioni, tabù, soglie rischiose…È successo. Non è un vanto né una colpa, non avevamo compreso abbastanza. Nel resto della vita, il tempo ci avrebbe insegnato a valutare meglio i fardelli, a sceglierli meno gravosi così da non stramazzare per la via. Ma era tormentoso scoprire che anche la strada della “liberazione”  – quanto abbiamo amato questa parola! – non era poi così semplice come avevamo creduto” scrive Marta Baiardi.

Forse non è stato così semplice, ma ne è valsa la pena. Per loro, per noi, per le nostre figlie che si avventurano in un mondo segnato da più libertà, ma anche da più trappole e contraddizioni.

Immagine di copertina di Nathan Anderson