La penna in mano al regista

In Weekend

Sorrentino, Avati ovvero registi che scrivono. O sorprendono con un inno d’amore verso l’oggetto libro: leggere J.J. Abrams (Lost e Star Wars) per credere

Roberto Benigni potrebbe pubblicare prima o poi un libro di poesie, ispirandosi non tanto alla Divina Commedia di Dante Alighieri quanto al suo passato di stornellatore all’impronta nelle Case del Popolo della periferia fiorentina. Nanni Moretti tiene dei diari dettagliatissimi durante le lavorazioni dei suoi film, riflessioni anche molto intime, e quando ne ha letto dei brani in pubblico ha lasciato intuire quanto sarebbe interessante leggerli in privato, stampati su carta. Carlo Verdone ha scritto un’autobiografia (La casa sopra i portici, Bompiani) che lascia intravvedere, soprattutto nei capitoli su Sordi e Fellini, un talento di narratore non indifferente. Gianni Amelio ha scritto dei libri molto cinefili (il più bello è Il vizio del cinema, Einaudi) che si leggono come romanzi, ma pur sempre libri di cinema sono. Pupi Avati, da qualche anno, affianca ad ogni film un romanzo che racconta la stessa storia in modo letterario, una sorta di novelization fatta a priori: ma il libro più bello e interessante che ha scritto è indiscutibilmente l’autobiografia La grande invenzione (Rizzoli). Il tema c’è, ed è chiaro: registi  – l’ultimo J.J. Abrams – che diventano scrittori.

Il contrario è accaduto molte volte: numerosi romanzieri sono stati sedotti dall’idea di trasformare in film le proprie storie, da Stephen King in giù. A volte è andata bene (pensate a Michael Crichton), a volte un po’ meno (pensate a Federico Moccia, e poi sforzatevi di non pensarci più). Il percorso opposto è meno frequente. Molti cineasti sanno di non saper scrivere, va detto a loro onore: sono in grado di redigere una sceneggiatura (scrittura “tecnica”, che con la letteratura non ha nulla a che vedere) o di buttar giù un intervento giornalistico su qualche tema d’attualità, ma un romanzo è un’altra cosa. Quando si tratta della propria autobiografia, spesso si fanno aiutare da professionisti della scrittura: a volte la cosa è dichiarata, a volte no. Anche gli articoli di giornale sono spesso testi “raccolti”: mi fa piacere raccontare – so che farebbe sorridere anche lui – il rapporto che era nato fra il sottoscritto e Dino Risi ai tempi gloriosi dell’Unità 2, l’inserto cultural-sportivo-spettacolare voluto dall’allora direttore Walter Veltroni. Chiedevamo spesso a Risi di intervenire: ci facevamo spassose chiacchierate telefoniche, io raccoglievo il necessario e, prima di scrivere, gli dicevo: «Dino, se vuoi ti richiamo e te lo leggo». La risposta, invariabile, era: «Scrivi caro, scrivi quello che vuoi, mi fido», con quella deliziosa erre moscia alla Agnelli. E pensare che Dino sapeva scrivere, eccome: I miei mostri (una raccolta solo in parte autobiografica di aforismi e aneddoti), uscito per Mondadori, è un libro strepitoso.

Il regista-romanziere oggi più importante è ovviamente Paolo Sorrentino: e non parliamo dei volumi usciti sulla scia di La grande bellezza, ma di veri e propri libri come Hanno tutti ragione e Tony Pagoda e i suoi amici (entrambi editi da Feltrinelli). Sorrentino scrive benissimo, anche se il suo stile ha qualcosa di strano: è come se lasciasse emergere, quando è solo davanti al computer, una “voce” fin troppo amante dell’effetto che nei film viene fortunatamente sommersa dalla magnificenza visiva delle immagini. Esprimiamo un paradosso: i suoi libri sembrano a tratti (naturalmente a posteriori) i libri… di Jep Gambardella, il giornalista flaneur del film premio Oscar. Sorrentino è di gran lunga la miglior “penna” fra i cineasti italiani contemporanei, ma siamo sempre, con lui, nell’ambito di libri “normali”, tradizionali. Una tradizione nobilissima, che un altro libro recente si incarica però di stravolgere.

È da poco uscito, per Rizzoli, un volume che fa della doppiezza la propria essenza profonda, a cominciare dai titoli e dagli autori (sì, tutto al plurale). Si intitola sia S. (è anche il titolo inglese) sia La nave di Teseo, e ora vedremo perché. Lo hanno scritto Doug Dorst, romanziere americano finora non famosissimo, e J.J. Abrams, ben più famoso in quanto autore di Lost e di altri successi cine-televisivi. Aprirlo, e toccarne la struttura fisico-cartacea, è il modo più diretto per capirne la natura: si sfila il libro dalla custodia che reca il titolo S. e ci si ritrova in mano, appunto, La nave di Teseo. È come se fosse un libro noleggiato in biblioteca (e infatti la prima pagina interna reca la scritta “book for loan”, libro destinato al prestito), fintamente rovinato ad arte (un po’ come la pellicola digitalmente rigata in Grindhouse di Tarantino), pieno di appunti a margine scritti a mano da altri lettori. Di più: contiene anche fotocopie, ritagli di giornale, cartoline, fogli di appunti, come un vecchio volume che ha visto fin troppe battaglie. Ben presto capiamo che gli appunti sono un altro libro che si affianca al primo: costituiscono un dialogo fra un ricercatore e una studentessa, che a turno prendono il volume in biblioteca e lo usano per narrare/narrarsi una propria storia. La scusa è che entrambi sono ossessionati da V.M. Straka, lo scrittore (immaginario) che avrebbe scritto La nave di Teseo. La finzione vuole che Straka sia un personaggio misterioso, autore di numerosi libri ma molto restio a far trapelare notizie di sé: una sorta di caso-Shakespeare, con le più incredibili congetture sulla sua vera identità, accentuate dai suoi (presunti) legami con società segrete e agenzie di spionaggio assortite.

Il primo libro, scritto presumibilmente da Dorst, è una sorta di Conrad riletto in chiave kafkiana, una storia di profughi, naufragi, marinai, sommosse… ma diventa ben presto meno interessante del secondo, quello costruito dagli appunti e sicuramente concepito da Abrams, una storia d’amore virtuale fra due nerds coinvolti in una trama più grande di loro. L’ossessione di Abrams per gli universi paralleli e le identità multiple emerge alla grande da questo gioco di specchi, ma l’aspetto più affascinante di S./La nave di Teseo è un altro: proprio nel momento in cui il romanzo si espande e diventa altro da sé, Dorst e Abrams creano un prodotto culturale che è un vero e proprio inno d’amore al libro cartaceo in quanto oggetto di un culto che sconfina nel feticismo. Curioso che a farlo sia il narratore più moderno e multimediale del nostro tempo, il regista che, con i due film di Star Trek e con il prossimo Star Wars Episode VII – The Force Awaken,s ha dato e darà nuova linfa alle due saghe fantascientifiche più amate del XX secolo. In quei casi è il cinema a espandersi, a diventare videogame, merchandising, multiprodotto invasivo e polimorfo. In S./La nave di Teseo il libro si modifica, ma torna miracolosamente ad essere se stesso.

Foto di Joi

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