La musica che gira intorno/ 57

In Musica

Che cosa passa questa settimana al convento delle sette note? Giancane all’Arci Ohibò, Il Boccanegra alla Scala, il leggendario Billy Cobham al Blue Note e il divo del violino, Joshua Bell, al Conservatorio. Al cinema atterra (sulle punte) il ballerino pop Sergei Polunin con il documentario Dancer

Giancane, che ama la birra e (non) odia i bambini
Giancarlo Barbati in arte Giancane, da Roma, è al secondo album solista dopo essere stato il frontman del Muro del Canto. Il precedente si chiamava Una vita al top e aveva le sue belle canzoni abrasive (una su tutte, Vecchi di merda), il nuovo Ansia e disagio rincara la dose. Copertina e packaging da vecchia Settimana enigmistica con undici giochini undici, tanti quante sono le canzoni. Il resto lo fa il gusto un po’ agro e un po’ gradasso di andare in culo a tutto e tutti, ai nani e alla mania delle Nike, ai fascisti ma anche al fascista che c’è in noi (Adotta un fascista), ai pargoli (Odio i bambini) ma in realtà ai loro genitori, perché la gente intelligente non si riproduce e figliano solo i subumani, agli anni ’80 (Limone, video prodotto da Chef Rubio: «Con gli anni 80 avete rotto il cazzo/ che poi hanno rotto il cazzo già negli anni ’80»). Per rivolgere infine gli strali anche contro se stesso, nevrotico e malato immaginario (Ipocondria). Stile caciarone e beffardo, un po’ country & roll, un po’ neomelodico, un po’ elettronica grossier da sigle dei vecchi cartoni animati. Una sola canzone d’amore, la spudorata e irridente 2 volte 6 che inneggia alla bottiglia magnum della Peroni rifacendo il verso a Max Pezzali e mixandolo con il Vasco Rossi di Siamo solo noi. Giancane è all’Arci Ohibò giovedì 22 febbraio, alle ore 21.

Giuseppe Verdi, arcitaliano e antitaliano
«Aveva tutta l’asprezza e la generosità, la cocciutaggine e la pazienza, la tenacia e la diffidenza del contadino padano. (…) Uomini tutti d’un pezzo, come si diceva appunto una volta. Verdi odiava avere debiti e che chi ne aveva con lui non li pagasse. I conti dovevano tornare fino all’ultimo centesimo, la parola data era sacra. Era severo con gli altri, ma anche con se stesso. Non si aspettava che il prossimo fosse generoso con lui, però quando pensava che fosse giusto diventava generosissimo. La sua riservatezza non era modestia: da timido orgoglioso, conosceva il suo valore, ma non lo esibiva. Detestava gli invadenti, i faciloni e gli sciocchi. Non dimenticava mai i torti subiti, autentici o immaginari, e i suoi rancori erano tenaci, profondi e inestinguibili come i suoi affetti. Non sprecava né parole né soldi. Si assumeva le sue responsabilità e pretendeva che tutti facessero lo stesso». Alberto Mattioli è per me il più bravo dei nostri giornalisti di musica colta e seguirlo sulla Stampa è un piacere. Da qualche giorno è in libreria il suo Meno grigi più Verdi, ovvero Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani (Garzanti, 150 pagine, 16 euro), raccomandato caldamente. Non soltanto l’uomo, non soltanto il creatore delle musiche che amiamo, ma anche un acuto indagatore del carattere nazionale. Al punto che il suo Radames che si innamora di Aida sembra per Mattioli un ragazzo di buona famiglia che prende la cotta per una colf immigrata, il protagonista di Un ballo in maschera un vitellone ante-litteram che non sa di esserlo, e la prima cena del Rigoletto ricorda una delle “cene eleganti” in quel di Arcore. Giovedì 22 febbraio alla Scala è di scena il Simon Boccanegra, torbida vicenda d’amore e congiure (e di “crisi di sistema”) nella Genova del ‘300, dove il partito plebeo riesce a far diventare doge un ex corsaro. Scritta nel 1857 (libretto di Francesco Maria Piave) e profondamente rimaneggiata nel 1881 (nuovo libretto, uncredited, di Arrigo Boito), il Boccanegra è un’opera cupa, alla quale Verdi confessò di voler bene «come si vuol bene al figlio gobbo». Dirige il sudocoreano Myun-Whung Chung, regia di Federico Tiezzi, in questo periodo anche regista di Freud o l’interpretazione dei sogni di Stefano Massini al Piccolo Teatro. Avete mai ascoltato il Simon Boccanegra? E quale versione preferite? Io scelgo quella diretta da Claudio Abbado alla Scala nel 1977 con Piero Cappuccilli, Nicolai Ghiaurov, Mirella Freni, José Carreras e José Van Dam (due cd della Deutsche Grammophon). I due allestimenti, quello diretto da Abbado e quello di quest’anno, si possono ascoltare in versione integrale su YouTube.

Billy Cobham, leggenda della batteria
Nato a Panama nel 1944, newyorchese di adozione, attivo dai primi anni ’60, Billy Cobham è una leggenda vivente della batteria, strumento del quale ha ampliato la gamma espressiva come pochi altri. L’energia che promana dal suo drumming ne ha fatto presto uno strumentista assai conteso, e la sua capacità di adattarsi ai vari contesti ne ha accresciuto la fama. E se il suo nome resta associato alla fusion (il gruppo Dreams con i fratelli Brecker e John Abercrombie, la Mahavisnu Orchestra con John McLaughlin), non vanno dimenticate collaborazioni storiche come quelle con Ron Carter, Miles Davis (Bitches brew) e Peter Gabriel (le parti di batteria per la colonna sonora di L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese). Da giovedì 21 a sabato 23 Billy Cobham è di scena al Blue Note (ogni sera due set, alle 21 e alle 23) con il Crosswinds Project: Paul Hanson al sax, Fareed Haque alla chitarra, Tim Landers al basso e Scott Tibbs alle tastiere.

Joshua Bell, il violinista che piace anche al cinema
È un divo del violino, l’americano Joshua Bell, classe 1967. Per la brillantezza del suono, certo, e per la precocità del talento (ha esordito a 14 anni con la Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti). Per l’ampiezza del repertorio e per i traguardi raggiunti (dal 2011 è il direttore musicale di un’istituzione londinese come l’Academy of St. Martin-in-the-Fields). Ma anche per l’abilità con cui sa “diventare pop” concedendosi al cinema (figura nelle colonne sonore di Iris, di La musica del cuore dove è anche fra gli interpreti, e di Angeli e demoni), incidendo album natalizi o rivisitando i Beatles ed Ennio Morricone. Niente di male, per carità, operazioni simili le hanno fatte anche Itzhak Perlman (il meraviglioso Music in the fiddler’s house dedicato al klezmer) e Yo-Yo Ma, senza che il loro magistero ne risultasse scalfito. Martedì 27 febbraio, alle 20.30, lo ascolteremo al Conservatorio per la Società del Quartetto, in duo con il pianista Sam Haywood, proporre tre sonate di Mozart, Strauss e Fauré.

Sergei Polunin, un ribelle della danza?
Esce nelle sale italiane Dancer, il documentario che nel 2016 Steven Cantor ha dedicato al ballerino ucraino Sergei Polunin, figlio di un operaio e di una casalinga, «il più grande talento della sua generazione» (New York Times) e il più giovane ballerino nella storia del Royal Ballet inglese (viene consacrato al ruolo nel 2010, a diciannove anni). Quando si avvia a emulare le gesta di Nureyev e Baryshnikov, il giovane Polunin entra in crisi, si fa indocile e ribelle, nel 2012 dà le dimissioni dalla compagnia. «Avvertivo il peso di non poter decidere, pur tra gente meravigliosa», dirà. E aggiungerà, anima slava assetata di assoluto: «L’artista in me stava morendo». Troppo anima slava per non fare sospettare il paraculo. Infatti libererà l’artista che è in lui esibendosi, tatuato come gli improbabili outsider siberiani di Nikolai Lilin, in un video pop diretto dal fotografo di moda David La Chapelle (Take me to church, 14 milioni di visualizzazioni) e partecipando al talent show Big Ballet, una sorta di Danzando sotto le stelle russo che vincerà. Di seguito, Prometeo liberato, farà campagne pubblicitarie (anche per la nostra Diesel), comparsate di lusso al cinema (Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh, gli imminenti Red sparrow e Lo schiaccianoci e i quattro regni della Disney) e danzerà la qualunque, anche Caruso di Lucio Dalla cantato da Pavarotti. Peccato perché il ragazzo è bravo: non si uccidono così neanche i cavalli.

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