La musica che gira intorno / 43

In Musica

Pop, rock, indie rock, progressive, iazz, folk, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi

GLI APPUNTAMENTI
Jasmine Guffond, compositrice e sound artist australiana, rielabora gli algoritmi generati dalle tecnologie di sorveglianza. Giovedì 19 al Macao, ore 21.
– Sempre giovedì 19, alla Scala, ore 20, musiche di Gustav Mahler. Dirige Daniele Gatti. Soprano Miah Persson, contralto Christianne Stotijn.
– Venerdì 20 al Santeria Social Club di scena gli Azymuth, veterani della contaminazione. Brasiliani di Rio de Janeiro, dal 1973 mischiano jazz, samba, funk e bossa nova.
– Da sabato 21 fino al 3 dicembre c’è il festival Milano Musica, dedicato quest’anno a Salvatore Sciarrino. Inaugurazione, alle ore 15 e alle ore 18, al Pirelli Hangar Bicocca. Marco Angius dirige, di Sciarrino, Un capitolo mancante per flauto solo (prima esecuzione assoluta) e Studi per l’intonazione del mare con voce, quattro flauti, quattro sax, percussione, orchestra di cento flauti, orchestra di cento sax.
– Domenica 22, alla Scala,ore 20, musiche di Schumann, Sciarrino e Bartok. Dirige Tito Ceccherini.
– Lunedì 23, al Conservatorio Giuseppe Verdi, ore, 20.30, la Mav Symphonic Orchestra di Budapest. Musiche di Beethoven e Rachmaninov, dirige Andrea Vitello, al piano Andrea Bacchetti, violinista Laura Bortolotto, violoncellista Amedeo Cicchese.

POP & ROCK
Flavio Giurato – Soundcheck/ Digos/ Ponte Salario/ In mezzo al cammino/ La scomparsa di Majorana/ Il manuale del cantautore/ Orbetello/ Marco e Monica
Segreti ben custoditi della musica italiana, seconda puntata. La settimana scorsa ho parlato di Gian Piero Alloisio, stavolta parlo di Flavio Giurato del quale è uscito, a due anni di distanza da La scomparsa di Majorana, l’intenso e straripante Le promesse del mondo (****). Dunque, Flavio Giurato. Romano, classe 1949, figlio di un diplomatico, nipote di Giovacchino Forzano che fu librettista di Puccini, fratello di Luca giornalista e conduttore televisivo e di Blasco, direttore della fotografia di molto cinema italiano. Esordisce nel 1978 con un album ambizioso, Per futili motivi, che racconta la vita di un ragazzo romano sotto il fascismo. Nel 1982 il primo capolavoro, Il tuffatore, disco entrato nella leggenda e diventato di culto quant’altri mai, storie d’amore tra Roma e la Toscana (qui ripropongo Orbetello). Due anni dopo è la volta dell’ambizioso e visionario Marco Polo (Marco e Monica, tra le più belle canzoni d’amore del nostro cantautorato, viene da lì), boicottato dalla casa discografica e di scarso successo. E Giurato, che non si vuole piegare alle regole del music business, smette di incidere. Starà in silenzio, tranne qualche sporadica esibizione, per diciott’anni. Che cosa fa, nel frattempo? L’autore e il regista per la Rai e per Raisat, il musicoterapeuta in manicomi e carceri, l’allenatore della squadra Roma Baseball (da ragazzo ha praticatolo sport americano facendo anche parte della nazionale giovanile ). Il ritorno avviene tra il 2002 e il 2007 con le due edizioni di Il manuale del cantautore che abbondano di belle canzoni. Poi, nel 2015 e nel 2017, due nuovi dischi. Artista di grande suggestione e difficile da incasellare, Giurato in Le promesse del mondo affronta e scompone, dalla sua casa-bottega di Montesacro, il tema dei migranti. Per illuminazioni e per flash verbali e sonori, per flussi di coscienza e incroci di discorsi e di idiomi, inglobando punti di vista differenti (il migrante, lo scafista, il caporale, il volontario, il militare, il poliziotto dell’allucinata Digos) e fondendo talvolta presente e passato (la bellissima Ponte Salario, fra i punti più alti dell’album, che rende onore alla memoria del partigiano dodicenne Ugo Forno – la storia la trovate qui, raccontata da Paolo Brogi – giustapponendola alle vite dei migranti che sotto quelle arcate oggi si accampano). Altro punto alto In mezzo al cammino, con papa Francesco che «annusa l’odore del gregge»: laica ed empatica, è la prima canzone dedicata al pontefice, qualcuno dovrebbe farglielo sapere.





Yusuf – Blackness of the night/ See what love did to me/ I’m so sleepy/ Wild world/ Morning has broken/ Peace train/ Moonshadow
Ve lo ricordate Cat Stevens, al secolo Steven Demetre Georgiou, londinese di origine greca e cantautore di immensa popolarità tra la fine dei ’60 e gran parte dei ’70? Dopo essere passato per lo zen e la numerologia, nel 1977 scelse il Corano, cambiò il nome in Yusuf Islam e trovò nuova fama, più che con la musica, con dichiarazioni fanatiche, per esempio quella in appoggio alla fatwa dell’ayatollah Khomeini che invitava a uccidere il romanziere Salman Rushdie. Ora Yusuf, ricondotto a una fede più mite, con The laughing apple (***1/2) torna sui suoi passi e ricorda un po’ il vecchio Cat Stevens. Bentornato.




Giancarlo Frigieri – Sei tu/ Vela/ Triveneta/ Andiamo/ I giorni che no
Poi uno si imbatte in versi come «Io ero un giudice buono coi fatti degli altri, ma poi si fecero i miei/ e la legalità per me è un po’ come Londra, mi piace ma non ci vivrei» (I giorni che no). In versi come «L’amore è un capocantiere che paga gli operai al nero/ li ammazza di fatica e gli promette lavoro/ e se ne frega della sicurezza e degli orari sballati/ l’amore non ha mica i sindacati» (Vela). In canzoni spiazzanti come Triveneta, che tra melodie alpine e suggestioni africane racconta la paura dell’extracomunitario con gli occhi di un anziano del Nordest. O ancora nell’ossessione per il gioco d’azzardo di La prima cosa che ti viene in mente, canzone che dà il titolo all’album (****). E pensa che è proprio un bell’album questo di Giancarlo Frigieri, emiliano credo di Carpi o di Sassolo, nato forse nel 1972 (ma il nostro imbroglia le carte nell’esilarante generatore automatico di biografie del suo sito www.miomarito.it), l’ottavo della sua carriera. Che con chitarre e poco altro, fra Guccini e Springsteen acidificato da un po’ di Lou Reed, fra alt folk e tradizione nostrana, torna a battere le rotte fra la via Emilia e il West ridando lustro e credibilità all’arte perduta del cantautore.


The National – Nobody else will be there/ Walk it back/ The system only dreams in total darkness/ I’ll still destroy you/ Guilty party
Indie rock americano che suona inglese, una band di Cincinnati – ma di stanza a New York – che sembra una band di Manchester, un disco che assomiglia più ai Radiohead che a Bruce Springsteen. Questi sono The National, questo è Sleep well beast (****). A calcare la scena e a cantare dentro nei dischi, come diceva Jannacci, sono in cinque: il cantante Matt Berninger, bella voce baritonale e autore dei testi, e le due coppie di fratelli Aaron e Bryce Dressner (chitarre basso e piano) e Scott e Bryan Devendorf (chitarra e basso l’uno, batteria l’altro). Musica notturna con sotterranei echi post-punk, sospesa fra languori e ballatone pianistiche e impennate elettriche.

MUSICHE RITROVATE
Bruce Springsteen – Growin’ up/ Born to run/ My father’s house/ Born in the Usa/ The ghost of Tom Joad
Springsteen on Broadway è l’ultima impresa del Boss: tutte le sere, cinque volte alla settimana, dal 3 ottobre scorso fino al prossimo febbraio, per due ore di fila, uno dei musicisti più amati e influenti della storia del rock canta e si racconta. Al Walter Kerr Theatre di Broadway, 960 posti e prezzi non lievi (i biglietti per la buca dell’orchestra costano 12mila dollari). Senza regista, soltanto un datore di luci e un tecnico del suono, armato di chitarra e pianoforte, pescando dalla sua recente autobiografia (Born to run, in Italia l’ha pubblicata Mondadori) e dal suo sterminato repertorio (*****). Quasi quasi prenoto un posto.

Nico – Sunday morning/ All tomorrow’s parties/ I’ll keep it with mine/ Chelsea girls/ My funny Valentine
La brava Susanna Nicchiarelli dedica un film, Nico 1988, agli ultimi anni di vita e di musica di Christa Paffgen in arte Nico (****), musa inquietante di Andy Warhol e per una breve stagione partner di Lou Reed e John Cale nei Velvet Underground, facendola interpretare dalla bravissima danese Trine Dyrholm. Nico proprio in quel 1988 che è entrato nel titolo del film morì a cinquant’anni. Una delle morti più assurde fra le tante del rock, assieme a quella di Sandy Denny caduta dalle scale di casa e a quella di Mama Cass dei Mamas and Papas soffocata da un sandwich: una caduta dalla bicicletta, a Ibiza, mentre andava in centro per rifornirsi di marijuana lei che per anni aveva marciato a eroina, curata in ospedale come insolazione mentre era emorragia cerebrale. In quei cinquanta tumultuosi anni Nico, nata a Colonia nel 1938 da un padre che avrebbe terminato i suoi giorni in manicomio e cresciuta fra le macerie della guerra, era stata modella per Vogue, comparsa per Fellini (La dolce vita), amante di Alain Delon dal quale avrebbe avuto un figlio non riconosciuto dall’attore e cresciuto dalla madre di lui, cantante e attrice per Warhol e per i Velvet e infine solista dalla voce monotona e scura ma capace di un suo incanto gotico e tragico a metà strada fra Marlene Dietrich e Marianne Faithfull (la si ascolti in I’ll keep it with mine, che Bob Dylan compose per lei, e nella spettrale, estrema My funny Valentine), donna a disagio con se stessa e con il mondo.

David Bowie – Joe the Lion/ Heroes/ Sons of the silent age/ V-2 Schneider/ Neukoln
«Io, io sarò re/ E tu, tu sarai la regina/ Anche se niente li porterà via/ Li possiamo battere, solo per un giorno/ Possiamo essere Eroi, solo per un giorno/ E tu, tu puoi essere meschino/ E io, io berrò tutto il tempo/ Perché siamo amanti, e questo è un fatto/ Sì siamo amanti, è proprio così». Una storia d’amore, precarietà e desolazione davanti al Muro di Berlino: è Heroes, capolavoro del rock. La canzone e l’album (*****), che usciva proprio nell’ottobre di quarant’anni fa. Secondo episodio della “trilogia berlinese” (Low, sempre del 1977, lo aveva anticipato, e nel 1979 sarebbe arrivato Lodger), Heroes è un lavoro arduo e affilato, una summa di pop art sintetico che vive dei testi visionari e della voce ipnotica di Bowie, dell’elettronica di Brian Eno e delle fologoranti invenzioni chitarristiche di Robert Fripp, leader dei King Crimson. Il genio talvolta si accompagna felicemente alla sregolatezza e il Bowie del periodo berlinese aveva, parole sue, «un astronomico consumo di cocaina» al quale associava tre o quattro pacchetti di Gitanes e Gauloises senza filtro. Da eroe solo per un giorno, da “sottile duca bianco”.




IL JAZZ
Lee Konitz – Donna Lee/ I’ll remember April/ These foolish things/ Ezz-thetic/ All the things you are/ Ghost of a chance
Il grande altosassofonista Lee Konitz (*****) ha compiuto da poco novant’anni e continua a girare il mondo in tour. Lo vedremo nei prossimi giorni anche in Italia, con il suo quartetto: il 2 novembre all’Auditorium di Bologna, il 3 a Milano nell’ambito del festival Jazz-Mi. Grande sassofonista, Konitz, lo ripeto. Definito a torto, con scontato luogo comune, freddo e cerebrale come il suo maestro e mentore, l’altrettanto grande Lennie Tristano. In tempi di be-bop, tra la fine dei ’40 e i ’50, chi preferiva Charlie Parker non amava il “cool” di Konitz, Tristano, Mulligan, Gil Evans e Miles Davis, il loro approccio “cameristico” ( e “bianco”, si disse con spregio, benché Davis fosse nero) al jazz. Ma Parker apprezzava la loro musica. Con il tempo, l’esprit de geometrie del cool è stato riconosciuto come un anticipatore delle avanguardie degli anni ’60, e la luminosità e la morbidezza di Konitz, il suo timbro perlaceo che con il tempo si è ispessito e fatto più carnale, è stato salutato come quello di un maestrogrande. In attesa di sentirlo dal vivo, possiamo apprezzarlo nel sontuoso Donna Lee (****, la title-track è, manco a farlo apposta, di Parker), appena uscito, che offre 38 fascinose esecuzioni di un maestro dell’improvvisazione.




LA CLASSICA
Hopkinson Smith – The delight pavan/ As it fell on a Holly Eve/ Pavan and galliard in D major/ Mr. Dowland’s midnight/ Mad dog
Che cosa ci fa un americano a Basilea, a insegnare alla Schola Cantorum Basiliensis? Bella e insolita la vicenda artistica di Hopkinson Smith, che nasce a New York nel 1946, si laurea ad Harvard con il massimo dei voti e, dal 1973, decide di trasferirsi in Europa. Dove fonda assieme a Jordi Savall il più prestigioso ensemble di musica antica, Hespèrion XX oggi Hespèrion XXI, diventando uno dei massimi esperti e virtuosi di strumenti a corde pizzicati: liuto e chitarre rinascimentali e barocche, vihuela, tiorba. Nell’incantatorio Mad dog (****1/2), cavando suoni celestiali dal liuto elisabettiano a otto corde, Smith si cimenta con i massimi autori inglesi a cavallo tra il ‘500 e il ‘600 – John Johnson, Anthony Holborne, William Byrd e ilmeraviglioso John Dowland – ribattezzando con titoli suggestivi composizioni nate senza titolo.