La musica che gira intorno/22

In Musica

Altro giro altre note: italiana, da Cammariere ai marchigiani Gang, etnica, il desert rock dei Tinariwen, classica, Urbanski interpreta Lutoslawski. Per citare solo alcuni fra i tanti

Sergio Cammariere – Tempo perduto/Con te o senza te/ Cantautore piccolino
Ritorna il cantautore crotonese che piaceva tanto a Bertinotti, nessuno è perfetto. Torna in gran spolvero rivisitando grandi successi e pagine meno note, tra canzone d’autore, jazz e aromi brasiliani. Registrato dal vivo a Roma, tra la Casa del Jazz e l’Auditorium Parco della Musica, Io (***1/2) può contare sull’apporto di un’affiatata jazz band (Luca Bulgarelli, Amedeo Ariano, Bruno Marcozzi e soprattutto la magnifica tromba di Fabrizio Bosso) e sugli archi di Paolo Silvestri. Una manciata di inediti: La cosa giusta, Cyrano con Gino Paoli e Con te o senza te, bossa nova ruffiana e radiofonica con la brava Chiara Civello.

 

Gang – Canzone del maggio/ Venderò/ I reduci
Rivisitazioni, atto secondo. I nostri anni ’70, non solo di piombo, riletti in salsa americana dai marchigiani Gang, ovvero i fratelli Marino e Sandro Severini. Registrato tra New Mexico e Colorado e prodotto dall’alt-rocker newyorchese Jono Manson con sonorità che spaziano dal blues agli Appalachi a New Orleans, Calibro 77 (***1/2) passa in rassegna la canzone d’autore più inquieta di quel decennio. Sogni e incubi on the road (Sulla strada di Eugenio Finardi, Cercando un altro Egitto di Francesco De Gregori), storie di lavoro e sfruttamento (Sebastiano di Ivan Della Mea e Uguaglianza di Paolo Pietrangeli), solitudini urbane e riflessioni esistenziali (Io ti racconto di Claudio Lolli, Un altro giorno è andato di Francesco Guccini), rivolte & freakerie (Questa casa non la mollerò e Ma non è una malattia di Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi), disillusioni e acri bilanci di stagione (Venderò di Edoardo Bennato e I reduci di Giorgio Gaber). Una bella sorpresa.

 

Dulce Pontes – Nevoeiro/ La Bohemia/ Alfonsina y el mar
Rivisitazioni, atto terzo. La portoghese Dulce Pontes, classe 1969, popstar che unisce al fado un vasto e talvolta ardimentoso repertorio da interprete, ha una vocalità notevole e un’altrettanto notevole propensione all’enfasi. Lo dimostra anche nel doppio Peregrinaçao (***), un album in portoghese e un altro in spagnolo, che affronta due poesie di Pessoa (Nevoeiro e Cancioneiro, le ha musicate lei, non male), Amalia Rodrigues (Grito e Alfama, senza infamia né lode), Artur Paredes (Bailados do Minho, bella), José Afonso (Grandola Vila Morena, che il 25 aprile 1974 diede il via alla Rivoluzione dei Garofani, qui inutilmente rallentata e “ipnotica”) e la musica colta (il Concerto per Aranjuez di Rodrigo e Asturias di Albeniz, soprattutto la prima in odor di bocellismo). Toni melodrammatici e sopra le righe nella parte spagnola: una versione di La Bohème di Aznavour che accentua il kitsch dell’originale, le bellissime Volver di Carlos Gardel e Alfonsina y el mar (la si confronti, qui sotto, con la bella versione di Eugenio Bennato) scempiate dagli eccessi da “tragediatora”. Peccato.


 

Washington talkin’ blues/ A rambling round/ Pastures of plenty di Woody Guthrie
Prendo di peso la traduzione italiana di Pastures of plenty, i pascoli dell’abbondanza, dell’ottimo sito “Canzoni contro la guerra”, e la riproduco per intero perché è una canzone importante, l’inno alternativo degli Stati Uniti.

È un duro solco che le mie mani hanno arato,
/i miei poveri piedi hanno percorso una calda strada polverosa/
Via dalla terra della polvere ci siamo diretti a ovest/
e il vostro deserto era caldo e le vostra montagna era fredda



Ho lavorato nei vostri frutteti di pesche e di prugne/
ho dormito nelle vostre valli alla luce della vostra luna
/sull’orlo delle vostre città ci vedrete e poi
/veniamo con la polvere e andiamo via col vento.



California, Arizona, ho mietuto i vostri raccolti
/e al Nord su nell’Oregon ho raccolto il vostro luppolo/
sradicato le barbabietole dalla vostra terra, vendemmiato l’uva dalle vostre vigne
/per servire sulle vostre tavole il vostro vino leggero e frizzante



Verdi pascoli d’abbondanza da terre secche e deserte
/Dalla diga della Grand Coulee dove l’acqua scendeva/
In ogni stato di questa Unione siamo stati migranti
/Continueremo questa lotta, e lotteremo fino alla vittoria



Abbiamo sempre vagabondato, quel fiume ed io/
Lungo la vostra valle verde, lavorerò fino alla morte/
La mia terra la difenderò con la vita se sarà destino/
Perché i miei pascoli d’abbondanza devono sempre essere liberi

La scrisse Woody Guthrie (1912-1967), il padre della canzone popolare americana moderna, il Walt Whitman del folk e il grande ispiratore del giovane Bob Dylan. Hobo, lavoratore stagionale, sindacalista, militante di sinistra (sulla sua chitarra c’era scritto: “Questa macchina ammazza i fascisti”), Guthrie nella sua lunga e travagliata carriera di folksinger compose oltre mille canzoni. Quelle raccolte nel doppio album Roll Columbia (****1/2), Woody Guthrie le scrisse in trenta giorni, nel 1941. Era stato incaricato dalla Bonneville Power Administration di fornire la colonna sonora a un documentario dedicato alla costruzione di una diga sul fiume Columbia, nello stato di Washington. Affascinato dai paesaggi, dal significato dell’opera, uno dei grandi progetti del new deal per dare acqua (e lavoro a chi costruiva la diga) e dal riscatto che ne poteva derivare per quei territori semideserti, Guthrie scrisse di getto 26 canzoni. Venne pagato 267 dollari, poco più di dieci dollari a canzone. Una parte dei brani fu pubblicato nel 1988 dalla Rounder, molti rimasero inediti. Li ripropone, affidandoli a esecutori di oggi (alcuni noti come Peter Buck dei REM, Scott McCaughey dei Minus Five, David Grisman a lungo a fianco di Jerry Garcia, Chris Funk dei Decemberists, ma la maggior parte sconosciuti) la fondazione Smithsonian Folkways, accompagnando le canzoni con un libretto ricco di informazioni. Una pagina di storia. Le tracce dell’album si trovano su Spotify, su YouTube c’è soltanto il trailer. Ho scelto, perciò, due versioni di Pastures of plenty (oltre a quella dello stesso Guthrie), quella di un giovanissimo Bob Dylan e quella di Allison Krauss & Union Station.


 

Velvet Underground – Sunday morning/ I’m waiting for the man/Venus in furs/ Heroin
Ci credereste? Nel 1967, quando uscì, le radio rifiutarono di trasmettere i brani dell’album, la stampa lo stroncò, le vendite furono assai scarse. Erano cinquant’anni fa esatti, l’album era The Velvet Underground & Nico (*****), quello con la banana sbucciabile di Andy Warhol. Un disco crudo e perturbante, che parlava di feste finite male, di donne fatali e veneri in pelliccia, di voyeurismo e ragazzi con 26 dollari in mano a caccia di una dose, che descriveva con una crudezza quasi insopportabile la dipendenza dall’ eroina. Loro, i Velvet, erano Lou Reed e John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker, raro esempio di donna alla batteria. Più Christa Paffgen in arte Nico, modella e musa inquietante (aveva avuto una particina anche nella Dolce vita di Fellini). L’album, incubatore di un rock urbano ruvidissimo e artsy al tempo stesso, avrebbe ispirato mille filoni, dal glam al punk, e oggi è considerato un capolavoro epocale del rock.



Tinariwen – Tiwàyyen/ Assawt/Nànnuflày
I tuareg sono un popolo senza stato disperso in tutta l’Africa lambita dal Sahara. Provengono dal nordest del Mali, ma sono cresciuti in esilio in Algeria e in Libia, i Tinariwen, gruppo portabandiera del desert rock che mescola blues, world, suoni elettrici occidentali e tradizione berbera. Da una decina d’anni i Tinariwen si esibiscono molto anche in Europa (a Glastonbury, a Dublino come opening act per i Rolling Stones, qui in Italia a Villa Arconati nei pressi di Milano). Elwan (****) è il loro settimo album, realizzato in due deserti: quello californiano, lo stesso di The Joshua tree degli U2 (con musicisti americani come Mark Lanegan, Matt Sweeney, Kurt Vile e Alan Johannes), e quello marocchino, nell’oasi di Taragalte che era tappa obbligata delle carovane in marcia verso Timbuktu. Musica ipnotica, fitti intrecci di chitarre elettriche e acustiche, poliritmie intricate. Da ascoltare e riascoltare. L’intero album è in streaming su YouTube.


Krzysztof Urbanski – Hurra polka/ Sinfonia n. 4 di Witold Lutoslawski
Il polacco Witold Lutoslawski (1913-1994) è uno dei grandi compositori del secolo breve da riscoprire. Creatore e arrangiatore in bilico fra il lascito nazionale e le avanguardie (Bartok, i viennesi), grande direttore (a ottant’anni, nel 1993, guidò la Los Angeles Philharmonic Orchestra, che gliel’aveva commissionata, nell’esecuzione della sua ultima composizione, una Quarta Sinfonia densa e quasi epigrammatica, meno di venti minuti di durata, libera nella forma e urgente nell’espressività: la trovate qui sotto), Lutoslawski riuscì ad aggirare, con la sua ribollente inventiva, anche gli angusti dettami del realismo socialista. Lo dimostra in questo impeccabile album Alpha Classics (****), la suite su temi popolari Mala suita, dalla quale ho estratto Hurra polka. Dirige in brillante scioltezza il 34enne Krzysztof Urbanski, direttore stabile della Trondheim Symphony Orchestra, qui alla testa della Ndr Symphony Orchestra di Amburgo.

 

The Bad Plus – Time after time/ I walk the line/ Don’t dream it’s over
Miglior gruppo internazionale del 2016 per la storica testata Musica Jazz, i Bad Plus di New York sono un trio (Ethan Iverson al piano, Reid Anderson al contrabbasso, Dave King alla batteria) con diciassette anni di attività e dodici album incisi. Che cosa fanno? Scompongono e ricompongono standard più o meno celebri del rock, del pop, del funky, della techno, come un tempo i loro predecessori facevano con il “great American songbook”. È vero, fa qualcosa di simile anche Brad Mehldau ma con loro l’approccio, assai rispettoso delle linee melodiche originali, arriva per così dire a perfezione, diventa sistema e metodo. Ne è un ottimo esempio It’s hard (****), che rilegge Prince e Barry Manilow, Johnny Cash (I walk the line) e i Kraftwerk, Peter Gabriel e Cyndi Lauper (Time after time, l’aveva rifatta anche Miles Davis, provate a confrontare le due versioni, che più diverse non potrebbero essere), Tv on the Radio e Yeah Yeah Yeahs, per finire con i Crowded House (Don’t dream it’s over: sì, proprio la canzone che in italiano, ad opera di Antonello Venditti, è diventata Alta marea). Due soli i jazzisti omaggiati, Bill McHenry (Alfombra magica) e l’amatissimo Ornette Coleman con Broken shadows.

 

Caro Emerald – Riviera life/ Dr. Wanna Do/ A night like this
Oddio, l’album non è proprio nuovo di pacca: il recente Deleted scenes from the cutting room floor (acoustic sessions) (***1/2) è la versione acustica dell’esordio, datato 2010, di Caroline Esmeralda van der Leeuw in arte Caro Emerald, olandese di Amsterdam e cantante jazz di piacevole vena rétro. Tutto qui, con l’aggiunta che Caro Emerald ha fatto tappa diverse volte in Italia (fra l’altro alla serata inaugurale di Umbria Jazz 2011), facendo registrare sempre il tutto esaurito. E che, qui da noi, ha duettato con Giuliano Palma.


Peppe Voltarelli – Qua si campa d’aria/ Mafia e parrini/ Amuri amuri
Doppio evento calabrese all’ultima edizione del Premio Tenco, qualche mese fa. Targa Tenco alla carriera a Otello Profazio, cosentino di Rende, 81 anni, che ha commentato, per niente intimorito: «Avremmo dovuto darmelo quindici anni fa». Aveva ragione, perché lui, con una produzione discografica sterminata e, negli anni ’70, un successo mai più eguagliato da nessun altro esponente del folk (nel 1974 il suo album Qui si campa d’aria divenne disco d’oro con oltre un milione di copie vendute), è la memoria del Sud, con stornelli popolari, leggende (Colapesce), canzoni acri e beffarde sulla “questione meridionale” e atti d’accusa coraggiosi, e tanto più allora (spesso i testi erano di Ignazio Buttitta) contro la mafia. Doppio evento, dicevo. Perché in quella stessa serata venne premiato Peppe Voltarelli, cosentino anche lui, ex leader del gruppo folk-rock (più esattamente, taranta-punk) Il Parto delle Nuvole Pesanti, per l’album Voltarelli canta Profazio (****). Ora l’album è libro-cd per SquiLibri, che già ha pubblicato Riccardo Tesi, ne abbiamo parlato, e il gruppo marchigiano La Macina, ne parleremo.

 

Courtney Marie Andrews – Table for one/ Put the fire out/ 15 highway lines
Che una giovane donna dell’Arizona se ne vada in Belgio a farsi spezzare il cuore e se ne torni a casa per scriverci su canzoni tristi è un effetto secondario, ma non meno perturbante, della globalizzazione. La ragazza è Courtney Marie Andrews di Phoenix, 27 anni, esordio nel 2008 e cinque album alle spalle. Questo, very sad e assai pulito negli arrangiamenti, se lo è prodotto da sola a Seattle. Canzoni piuttosto belle ma, fin qui, niente di sorprendente. La sorpresa di Honest life (***1/2), per me, è la voce di Courtney Marie: un perfetto avatar della giovane Joni Mitchell di Blue. Il voto sarebbe ****, non fosse per questo leggero effetto (anche nella scrittura) di dejà entendu.

 

Daniel Bachman – Brightleaf blues I/ The flower tree
Nel 2015 Rolling Stone lo ha inserito nella lista dei dieci nuovi musicisti che vale assolutamente la pena di conoscere. Lui è Daniel Bachman da Fredericksburg, Virginia, 27 anni e otto album già pubblicati. Bachman, se vogliamo buttarla sul tecnico, è un “American primitive guitarist” come lo era l’immenso John Fahey; fa “drone music”, quella musica ipnotica ed estatica che si basa su suoni e note sostenute e ripetute. Dentro ci senti il minimalismo di LaMonte Young ma anche il blues (Brightleaf blues I ricorda certe atmosfere di Paris, Texas di Ry Cooder, e tutti e due ricordano un grande chitarrista degli anni ’30, Blind Willie Johnson), il raga della tradizione indiana ma anche il twangy di Duane Eddy. Una grande tradizione “primitiva” che l’album Daniel Bachman (****) rimette in circolo, ma come disincarnata. Insomma, dietro quella sei corde c’è, se non un mistico, un contemplativo. Affascinante.

 

Dead Man Winter – This house is on fire/ I remember this place being bigger/ Cardinal
Sarà una coincidenza ma Dave Simonett è di Duluth, Minnesota, la stessa città dove è nato Bob Dylan. È il leader di un’apprezzata band acustica di alt-country, i Trampled by Turtles. Quando ha del tempo libero suona anche con un’altra band, elettrica e “americana”, i Dead Man Winter. Finora ci ha fatto tre dischi solidi, classici e molto ancorati alle radici. Ora arriva questo Furnace (***1/2), che è stato registrato negli studi (Minnesota, non si scappa) in cui i Nirvana registrarono In utero, ha belle ballate ariose, suonate bene e cantate con una voce calda. Bello, intenso e senza sbavature.

 

Bob Dylan – I could have told you/ My one and only love/ Stardust
Fateci l’abitudine, il Bob Dylan immediatamente precedente e successivo al Nobel è tutto nostalgia e ristampe (da segnalare The real Royal Albert Hall 1966 concert, due cd, *****, e il monumentale cofanetto The 1966 live recordings, 36 cd per trenta ore di musica, non oso neppure dare un voto). Di canzoni nuove non se ne parla, in compenso si parla di Triplicate (**** preventivo), il primo triplo album della carriera, che esce il 31 marzo. Trenta classici e gemme minori della canzone americana che fu, tre li trovate già, grazioso anticipo, su Spotify e YouTube. Per il resto, mentre prepariamo le orecchi sentendo Dylan modulare Polvere di stelle, sono nella tracklist Stormy weather e I could have told you, As time goes by (sì, proprio quella di Casablanca) e How deep is the ocean, Sentimental journey e These foolish things. A me il Dylan “passatista” degli ultimi due album, Shadows in the night del 2015 e Fallen angels dello scorso anno, è piaciuto con le sue versioni scabre e notturne delle canzoni un tempo appannaggio di Frank Sinatra, Bing Crosby e Judy Garland. Certo, cantasse anche qualcosa di suo…


Molester sMiles – Black satin/ Limografi rodenti/Bolero sketches
«Non mi piace la parola jazz. Preferisco dire social music». Così il Miles Davis del periodo elettrico tra metà dei ’60 e fine dei ’70, quello di Nefertiti e Bitches brew che apriva al rock e al funky. A quel Miles Davis si ispira il supercollettivo trentino Molester sMiles, del quale è uscito il primo disco, non a caso Social music (***1/2). Loro sono Massimiliano Milesi (sax soprano e tenore), Achille Succi (sax alto e clarinetto basso), Enrico Merlin (chitarra e live electronics), Giancarlo Tossani (piano elettrico Rhodes, laptop e live electronics), Giacomo Papetti (basso elettrico e live electronics) e Filippo Sala (batteria). Buone premesse e gran bel suono, si attendono sviluppi.


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