La musica che gira intorno/24

In Musica

Dal rock all’elettronica, dal jazz alla classica, dall’etnica al blues le buone note della settimana secondo Cultweek

Betty Harris – There’s a break in the road/ What a sad feeling/ Nearer to you
Profumano di anni ’60, profumano di “deep soul” le sedici tracce di The lost queen of New Orleans soul (****). Erano in origine singoli, usciti fra il 1965 e il 1969 per la Sansu di New Orleans, una piccola etichetta del grande Allen Toussaint (1938-2015). Alcuni divennero hit minori: la ballad What a sad feeling, Nearer to you che raggiunse l’85° posto in classifica, la funky There’s a break in the road. Furono raccolti nel 1969 in un vinile inglese, Soul perfection, tuttora abbastanza ricercato dai collezionisti (quotazioni fra i 200 e i 300 dollari). La cantante, Betty Harris, classe 1939 e talento da vendere, a New Orleans c’era arrivata da Orlando, Florida, e da New York, dove nel 1963 aveva inciso il suo più grande successo, una cover di Cry to me di Solomon Burke, 23° piazzamento in classifica, che in questa antologia non c’è. Ve la offro in versione YouTube.


 

Deproducers – Pianeta verde/ Dendrocronologia/ Fotosintesi
Il disco comincia così: «Siamo ospiti di un giardino, nel quale il 97,3% della biomassa è vegetale. Il restante 2,7% è costituito per due terzi da insetti e solo un terzo comprende pesci, uccelli e mammiferi. La specie umana, con i suoi 7 miliardi di esemplari, rappresenta soltanto lo 0,01% della biomassa. Per un alieno che osservasse il pianeta saremmo apparentemente irrilevanti». Che ci fa un neurobiologo vegetale come Stefano Mancuso in un disco? Ci fa l’autore dei testi e la voce recitante, se il disco si chiama Botanica (***1/2). E se il supergruppo che il disco ha voluto e realizzato si chiama Deproducers, sottotitolo Musica per conferenze scientifiche. Loro sono Max Casacci (Subsonica), Gianni Maroccolo (Litfiba, CCCP, CSI, PGR), Riccardo Sinigallia (Tiromancino) e Vittorio Cosma (Pfm): musicisti ma anche, tutti, produttori e arrangiatori. Dopo il primo episodio Planetario del 2012, che esplorava astronomia e astrofisica, ora tocca al pianeta verde. Che su disco dà l’impressione dell’audiolibro con inserti elettronici, ma dal vivo, guardate il video di YouTube e capirete, ha l’affascinante format del concerto-conferenza impreziosito dai video. Ci voleva proprio un disco per farci scoprire che la digitale purpurea aiuta i cardiopatici e il catharanthus roseus i bambini colpiti dalla leucemia.


 

Ambrogio Sparagna – Moresca seconda/ Babbo in prigione – L’asino che balla/ Noi non ci bagneremo
Etnomusicologo, direttore d’orchestra, agitatore musicale, organettista di valore, il più bravo e celebrato alle nostre latitudini con il toscano Riccardo Tesi, il laziale Ambrogio Sparagna raccoglie trent’anni di avventure sonore nell’ottimo e variopinto Stories 1986-2016 (****). Una musica calda e pronta a contaminarsi, a immergersi nelle tradizioni (la taranta, i cantastorie, gli oratori e le musiche natalizie), a vestire Rocco Scotellaro e Giacomo Leopardi, ad accogliere artisti importanti e di varia estrazione, il doppio album lo documenta in maniera egregia, da Francesco De Gregori a Lucilla Galeazzi, da Lucio Dalla a Simone Cristicchi, da Piero Pelù e Giovanni Lindo Ferretti, da Carmen Consoli a Gabriele Mirabassi.

 

Marc Almond – Tainted life / I feel love/ Jacky/ The days of Pearly Spencer
Nella new wave e nel synthpop degli anni Ottanta, un posto in prima fila merita il duo Soft Cell formato da Dave Ball e da Peter Mark Sinclair Almond, in arte Marc Almond. Nato nel Lancashire e figlio di un militare di carriera, icona gay noto spesso più per la vita e gli eccessi che per l’arte, Almond è un artista eclettico, forse tra quelli che meglio hanno messo a frutto la lezione di David Bowie, nonché un ottimo performer. Lo dimostra la bella antologia Hits and pieces – The best of Marc Almond & Soft Cell (****), più equilibrata e abbordabile del monumento per feticisti uscito nel 2016 (Trials of eyeliner, 10 cd e 192 brani, comunque ****). Accanto agli hit come Tainted love e Bedsitter, menzione d’onore per alcuni duetti (Something’s gotten hold of my heart con Gene Pitney, Adored and explored con Buster Pointdexter alias David Johansen già New York Dolls) e per una manciata di cover strepitose: I feel love di Donna Summer e Giorgio Moroder rifatta con i Bronski Beat, The days of Pearly Spencer di Gilbert O’Sullivan (da noi era Il volto della vita di Caterina Caselli) e addirittura Jacky di Jacques Brel traghettata in zona disco music.

 

Gaye Su Akyol – Akil olmayinca/ Dunya kaleska/ Eski tufek/ Berdus
Trentun anni, istanbulina, Gaye Su Aykol è pittrice, figlia di un pittore celebre (Muzaffer Aykol, i suoi splendidi quadri li trovate anche sul web) e, dal 2014, cantante di aspro carisma. The Guardian, il giornale che me l’ha fatta conoscere, la paragona a Bjork: non per la musica ma per l’attitudine drammatica ad autorappresentarsi e per la vena assai poco convenzionale dei suoi testi (nell’ultima canzone di Hologram imparatorgulu, ****, Berdus, canta: “Il pezzo di merda di ieri si è impadronito dei nostri cervelli”, e l’allusione alla situazione politica è trasparente). Che dire del disco? Che è un insolito e coinvolgente amalgama di musica turca (con le chitarre elettriche a mimare, di sovente, oud e saz) e di imprestiti rock antichi e recenti, dalle chitarre twangy della surf music dei ’60 al grunge a Ennio Morricone (certe atmosfere da spaghetti western si sentono). Fino al suono sporco e urticante di Nick Cave e dei Bad Seeds, si metta a confronto la musica dell’australiano con Dunya kaleska. Notevole.


 

Samuel – Voleva un’anima/ La luna piena/ Il codice della bellezza
I Subsonica in libera uscita si sfogano nei progetti solisti. Lo scorso ottobre La stanza intelligente di Boosta alias Davide Di Leo, ne abbiamo già parlato, di recente Botanica dei Deproducers (e dentro c’è Max Casacci, ne parliamo in questa rubrica) e Il codice della bellezza (***1/2) di Samuele Romano in arte Samuel, da vent’anni frontman della band torinese. Piacevole elettropop come già aveva anticipato il passaggio sanremese di Vedrai. Alla produzione Michele Canova (Jovanotti, Tiziano Ferro) e si sente, qualche volta anche troppo. Jovanotti firma cinque canzoni, in una (Voleva un’anima) duetta con Samuel, e un’altra, la strepitosa ballad La luna piena, è il pezzo più bello dell’album, e di sicuro la più bella prestazione vocale di Samuel. Con il quasi trip-hop della title-track, che batte sentieri più vicini ai Subsonica.

 

Tedeschi Trucks Band – Keep on growing/ Bird on a wire/ Within you without you/ Leavin’ trunk
Matteo Villa li ha esaltati la scorsa settimana su Cultweek, in un’empatica cronaca del concerto milanese all’Alcatraz, e ha fatto bene. Perché la Tedeschi Trucks Band è forse la più bella esperienza live del rock americano di oggi. Un southern rock, nel loro caso, profumato di blues e propenso alle lunghe cavalcate. Marito e moglie nella vita, il chitarrista Dereck Trucks, già nella Allman Blues Band (Rolling Stone lo ha inserito al sedicesimo posto fra i migliori chitarristi di sempre) e la chitarrista e cantante Susan Tedeschi rifulgono, assieme agli altri dieci membri della band, nello strepitoso Live from the Fox Oakland (****1/2). Bravi a fare tutto, io li ho scelti a rivisitare Eric Clapton (Keep on growing), Leonard Cohen (Bird on a wire), i Beatles (Within you without you) e il blues di Sleepy John Estes (Leavin’ trunk). Una festa.

 

BJ Nilsen/ Francesco Zago – Perpetual motion/ Chaconne perspective
Lo svedese BJ Nilsen e il milanese Francesco Zago si incontrano il 10 aprile, alle 21, all’Auditorium San Fedele di Milano nell’ambito della rassegna “Inner spaces. Identità sonore elettroniche”. Nilsen è un sound artist: cattura suoni e li trasforma in performance sonore, in paesaggi possibili. E a Londra insegna sound art e sound design. Francesco Zago è invece attivo in diverse formazioni (dal 2012 è anche membro degli storici Stormy Six) tra alt-rock ed elettronica, ha inciso 14 album e insegna chitarra elettrica e improvvisazione alla Civica Scuola di Musica di Milano. Qui sotto, alcuni campioni della loro musica.

Lee Konitz – Stella by starlight/ Darn that dream/ Invitation
Volete sapere come suona un grande musicista alla soglia dei novant’anni? Ascoltate Lee Konitz, sax contralto di sublime liricità, che i novant’anni li compie a ottobre, in questo prodigio che è Frescalalto (****1/2). Assecondato da un altro grande come Kenny Barron, a lungo pianista di Dizzy Gillespie e Stan Getz, e da un ‘ottima sezione ritmica (Peter Washington al contrabbasso e Kenny Washington alla batteria, collaboratori di Tony Bennett), Lee sembra abbeverarsi alla fonte dell’eterna giovinezza. Certo, il suono è più essenziale rispetto a ieri, ma la capacità lirica di cesellare arabeschi (Invitation), di andare dritto al punto (la superba Stella by starlight) o di calibrare le forze alternando strumento e canto scat (Darn that dream) è, al tempo stesso, incantevole e commovente.


Maurizio Pollini – Barcarolle op.60/ Polonaise-fantaise op. 61
Una lunghissima consuetudine, la frequentazione di una vita. Maurizio Pollini, Pianista senza aggettivi, e Frederyk Chopin. Si comincia nel 1960, quando il diciottenne Pollini trionfa nel Concorso Chopin di Varsavia, presidente di giuria Arthur Rubinstein. E, lungo l’arco di quasi sessant’anni, si conclude (per il momento) con il meraviglioso Late works (*****), dedicato alle opere 56-64, quelle composte da uno Chopin forse depresso che si riteneva in calo di ispirazione, negli anni 1845-1846. Pollini interprete è una sorpresa continua: asciutto soltanto all’apparenza, in realtà contrario alle enfasi tardo-romantiche, ma umbratile e capace di sottigliezze (di tecnica, ma soprattutto di scabra sensibilità). In una bella intervista di Riccardo Lenzi (sull’Espresso di questa settimana) Pollini rende omaggio agli altri grandi interpreti chopiniani: Rubinstein, Horowitz, Serkin, Arrau. Parlando di sé taglia corto: «Credo che oggi la mia interpretazione sia più libera nel ritmo e che ci siano maggiori elementi di rubato». Io continuo ad ascoltarlo, come un elisir a lento rilascio che cresce di ascolto in ascolto.

 

IL RECUPERO
Gianni Nebbiosi – E qualcuno poi disse/ Er verniciaro/ ‘Na specie de speranza/ Ma che razza di città
Oggi Gianni Nebbiosi fa lo psichiatra, di musica non si occupa più da decenni. Studiava medicina a Roma negli anni ’70, aveva vent’anni o poco più. Credo sia stato un breve ricovero, depressione o giù di lì, qualche casino insomma, a fargli scoprire l’esperienza disumana dei reparti psichiatrici. Ne venne fuori con l’adesione al movimento di Psichiatria Democratica, con il sostegno alla battaglia di Franco Basaglia che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi. Ne venne fuori nel 1972 con un bellissimo mini-disco, sei canzoni dedicate al disagio mentale, E ti chiamaron matta. Due almeno i capolavori, Il numero d’appello e E qualcuno poi disse. Il disco, da tempo introvabile, è stato reinciso nel 2009 da Alessio Lega. Nel 1974, per la Intingo di Ricky Gianco anche produttore, il secondo lavoro, Mentre la gente se crede che vola. Era la parte impegnata del progressive italiano, con gli ottimi musicisti del Canzoniere del Lazio a fargli da spalla. Canzoni belle e ingenue, come se ne scrivevano in quegli anni ’70 non solo di piombo. A me sono rimasti in mente, da allora, l’uomo che piange su un cartoccetto di caldarroste (Ma che razza de città) e il ludopatico di ‘Na specie de speranza. E ve li ripropongo.

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